Alusa Fallax – Intorno alla Mia Cattiva Educazione

Milano, 1969. Inizialmente erano in quattro e si facevano chiamare Adelfi, proponendo un beat piuttosto datato: fu in seguito all’incontro col tastierista Massimo Parretti, che li contattó per incidere una sua canzone basata sull’intermezzo della Cavalleria Rusticana, che il complesso assunse la sua curiosa denominazione definitiva, pubblicando due 45 giri per la piccola etichetta West Side (“Dedicato a chi amo/Charleston 1923” e “Tutto passa/Cade una stella“) che passarono entrambi inosservati, complice soprattutto una scarsissima promozione. Dopo questa delusione, il gruppo decise di ripiegare su una comoda carriera da balera, una gavetta che risultò alla fine formativa nell’allestimento di un proprio repertorio compatibile alle esigenze del pubblico; dopo alcuni anni e le partecipazioni ai celebri Festival pop di Roma e Napoli nell’estate del 1973, gli Alusa Fallax si fecero infine notare dell’esigente etichetta Fonit Cetra che li mise sotto contratto.

Veniamo alla formazione. Il quintetto si stabilizzó fin da subito intorno alla figura centrale del compositore Massimo Parretti, con il chitarrista Guido Gabet e i tre fratelli Cirla a completare una line-up quasi a conduzione familiare: il vocalist Augusto “Duty” alle percussioni, Guido al basso e Mario agli strumenti a fiato (con quest’ultimo autore anche dei testi).

Nel 1974 gli Alusa Fallax calarono l’asso dalla manica, dividendo il palco con i Curved Air a Novara e pubblicando infine il disco d’esordio Intorno alla mia Cattiva Educazione, un sofisticato concept-album “nato quasi per gioco”  ed ideato per un concerto teatrale con tanto di sceneggiatura e regia. Per alcuni mesi il gruppo portó in giro lo spettacolo ma il naufragio del progetto per un secondo album fece mutare il nome della band in Blizzard per poi scioglierla definitivamente dopo un solo singolo nel 1979.

Intorno alla mia cattiva educazione è un disco molto raro, dato ne vennero stampate soltanto 5000 copie all’epoca. Inoltre, l’album non conteneva nessuna informazione sui musicisti sulle note di copertina, riportando soltanto i titoli dei brani: per questo motivo alcune edizioni uscirono con un adesivo tondo giallo contenente i nomi dei membri ed alcune informazioni sulla registrazione in studio. Bisogna, infincover_259182592010e, sottolineare come sia ancora grazie all’archeologica Mellow Records che oggi possiamo ascoltare questo disco.

L’immagine di copertina fu scelta dal gruppo in quanto evocava i disegni dei libretti su cui si studiava il catechismo ed essendo un concept-album basato proprio sull’educazione, questa era apparsa ben indicata. La realizzazione, stando a Parretti, fu eseguita da uno studio di via San Marco a Milano, “Eccetera…”, di un certo Ugolini. Le composizioni sono invece ricche di riferimenti classici tanto cari al tastierista (Debussy, Ravel, Stravinskij, Varese), specie nella prima parte in cui si delinea la figura del protagonista, vittima di rigide regole educative: tutta l’originalità degli Alusa Fallax sfocia però prepotentemente nella seconda metà, con la ribellione dell’uomo dalle sue inibizioni che viene trasportata in musica.

A proposito dell’idea e della sua esecuzione: Intorno alla mia cattiva educazione nasce come opera, o meglio come concerto sceneggiato, non come disco. L’opera trattava di un personaggio, che sul palco era rappresentato da un fantoccio che a turno facevamo partecipare alla scena, vittima di una educazione severa e bigotta che lo bloccava sia fisicamente che intellettualmente, e infatti tutta la prima parte dell’LP è tendenzialmente molto classicheggiante e formale anche se basata su tempi di 5/4 e 7/4, fino all’esplosione di follia che chiude il 1° lato con cui il nostro personaggio si libera delle inibizione e risorge a nuova vita.

Nello spettacolo, noi entravamo in scena nel buio assoluto con accesa solo una lampada particolare di colore viola, quella che fa risaltare il bianco, che lo rende fluorescente. Infatti noi uscivamo con i dorsi delle mani verniciati di bianco e cominciavamo a suonare uno alla volta mentre gli altri tenevano le mani nascoste. Cominciavo io alle congas con il tempo in 5/4 del primo pezzo, dalla platea il pubblico vedeva soltanto due mani bianche fluorescenti che si muovevano nell’aria. poi entrava il bassista anche lui scopriva le mani e le si vedevano armeggiare nell’aria, per ultimo entrava il flautista con la melodia, fino al primo stacco quando si accendevano tutti gli spot. Alla fine della prima parte, con il “recitativo su nastro magnetico”, c’era la follia collettiva, il pupazzo veniva strapazzato, ce lo passavamo dall’uno all’altro facendolo volare, il tutto sotto le luci stroboscopiche che rendevano la scena delirante. Alla fine dell’esibizione, dopo il crescendo musicale a cui corrispondeva il crescendo delle luci che arrivavano ad essere accecanti perchè alcuni quarzi erano puntati sul pubblico, con la chiusa dell’ultimo accordo le luci si spegnevano di nuovo totalmente e sul palco si vedevano al nostro posto solo 5 lumicini tremolanti” (da un’intervista con Massimo Parretti, opera di Giovanni Ottone, ottobre 2003).

Con “Soliloquio” entriamo in punta di piedi nella mente del personaggio, a passi dispari e raddoppiati con un intimo monologo strumentale sostenuto da flauti e percussioni, presto sostituiti dal multistrato di sintetizzatore e chitarra, maggiori responsabili della vena progressiva che permeerà questo lavoro fino alla fine. In “Non fatemi caso” abbiamo un primo assaggio della voce burbera di Augusto Cirla, che trova eguali nello Stivale forse soltanto in quella di Alvaro Fella dei Jumbo (con cui ha in comune anche la preferenza per le tematiche psico-sociali) e di Leonardo Sasso della Locanda delle Fate; drammatiche pennellate di pianoforte e flauto forniscono invece un paesaggio sonoro scalfito da sferzate di basso, synth e da una mite batteria. La title track “Intorno alla mia cattiva educazione” presenta una sezione ritmica precisa e versatile, conservando un‘atmosfera acuta più volte sostenuta da flauti emotivi e dalle psicosomatiche tastiere. D’altrocanto, in “Fuori di me, dentro di me” è la chitarra acustica a fornire la melodia, in uno dei pezzi migliori del disco, che presenta numerosi cambi di tempo e di umore che paiono quasi svolgersi più sul palco – come da progetto – che attraverso le nostre casse, nel dolore di una mente repressa che viene portato in superficie (“È difficile credere che tu non sappia quale opinione ha la gente di me; tutto quello che distruggo, tutto quello che non vedo, vorrei essere presente quando ti ricrederai“).

Davanti al mare hanno luogo alcune “Riflessioni al tramonto“, con una sinfonia che riverbera alcuni ruggiti di flauto che escono direttamente dalla “House of the King” dei Focus “nell’ora in cui il sole e l’oceano s’incontrano come due labbra” mentre svettanti linee melodiche disegnano riflessioni sognanti sulla spiaggia, interrotte bruscamente proprio mentre un interessante assolo di sax stava per cominciare. Leggero e labile è invece “Il peso delle tradizioni“, una fuga strumentale che mostra un certo clima sarcastico fornito dalle tastiere e da uno stregante flauto, che preparano il terreno per l’esuberante Carta carbone“, la cui sezione vocale è impostata sul ritmo di una rumba, sprigionando una forza vitale completata da un significativo gioco di organi lungo una “Via Crucis” percussionista che porta al sentiero dissestato della seconda parte del disco: “Perché ho venduto il mio sangue” si presenta subito con un cambio di umore, con le nevrosi del protagonista sussurrate in un flagore di laringitica e delirante saggezza (“Non sapevo che esistesse il mondo; mai ho guardato le scarpe, mai ho saputo leggere, mai ho provato a nascondermi. La terra sorge come se vivesse in me, chiudo gli occhi, incomincio ad esistere“). La vellutata “Per iniziare una vita è un brano folk-barocco, con una parte acustica ed una più lirica: naturalmente anche qui il sintetizzatore e gli strumenti a fiato contribuiscono a dare pathos e spessore. Una curiosità: la seconda parte di questo brano è una ripresa di una canzone interpretata dai Inti-Illimani nei primi anni Settanta, “Run Run se fue pa’l Norte”. È oggipresenta invece un eccesso di sax, flauto, organo, chitarra e tamburi, un sovradosaggio che porta una sensazione di una certa mancanza di coesione, connotata da un leggero malessere che scorre lungo una sottile vena jazz. Questo disturbo è ancora più evidente nell’intro diÈ così poco quel che conosco“, in una pista che pare un po’ datata nel suono, con l’ammirazione dichiarata della band a “Jesus Christ Superstar” che fa capolino in una miscela eretica sempiterna di classica, jazz e rock (“voi state cercando in me quello che io ho rinnegato in voi e non rivoglio mai più“). Le ultime due tracce ci riportano una certa dose di sanità mentale: “Ciò che nasce con me” viene aiutata maieuticamente da un sapiente uso del mellotron, evocative armonie vocali e dalla graffiante voce di Augusto (“Il mondo è giusto una città; qui, stasera tra questo fumo ci siamo noi; prima di me e con me principi e perdenti, prima di me e con me, vincitori e vinti“) mentre la strumentale “Splendida sensazione” chiude questo viaggio interiore così come indicato dal titolo, slegando le catene educative e chiudendo questo Grand Tour cerebrale in una maestosa canzone tipicamente sinfonica.

Come molti dei gruppi mordi e fuggi dell’epoca, anche gli Alusa Fallax fecero una sveltina col progressive, con un’impressionante originalità riccamente melodica, colma di sfumature classiche, sinfonismo all’italiana, tinte jazz ed acustici tocchi folk. Le tastiere sono prevalenti, le voci calde e passionali, mentre la sezione ritmica viene accentuata da abili colpi di flauto, sax e percussioni etniche. A bene analizzare l’album, pare quasi che i passaggi strumentali vengano utilizzati in tempi più esigenti e veloci per evocare emozioni fulminee, mentre le sezioni cantate si radicano su un terreno più morbido, come se fossero state progettate per migliorare il cerimoniale riflessivo convogliato nei testi.

Rispetto ad alcuni dei gruppi del progressive inglese coevo (Pink Floyd, Jethro Tull, ELP) ed ai primi atti italiani come la PFM, Le Orme o il BMS, questo album può risultare meno sofisticato, anche per via di una minore qualità del suono ma questo non toglie peso ad un disco che, se non è un capolavoro, poco ci manca. L’uso sovrastrutturato dei flauti e dei sintetizzatori Moog offrono un morbido contropeso all’atmosfera depressiva che si respira, con l’influenza classica che domina le grandi prestazioni di Parretti su synth, organo e pianoforte e la costante presenza di Mario Cirla ​​e dei suoi flauti che offrono un risultato finale forse paragonabile per leggiadria soltanto ad alcune opere dei Banco del Mutuo Soccorso.

Un disco da riscoprire, non c’è dubbio. Buon ascolto!

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