Can – Future Days

Dopo un periodo di assenza, torniamo a parlare di un album a me molto caro, seppur vituperato ingAdesivi_58iustamente da molte persone: si tratta di Future Days dei Can, o come più volgarmente viene soprannominato dalla sottoscritta, l’album dell’Hellas Verona.

Future Days venne rilasciato dalla United Artists nell’ottobre del 1973 con una curiosa copertina – i simboli presenti sulla facciata rivelano, infatti, lo stato d’animo presente al momento delle registrazioni agli Inner Space fuori Colonia: l‘Esagramma è tratto dal libro cinese “I Ching” ed è costituito da una serie di linee spezzate (Ying) e linee continue (Yang) – questa configurazione in particolare è nota come il calderone, un simbolo che suggerisce di indirizzare la propria vita verso un cammino di elevazione spirituale. Il tridente, d’altrocanto, porta la sua abbondanza di significati relativi al contesto storico, a cominciare dalla mitologia greca in cui era simbolo per antonomasia di Poseidone, mentre nell’induismo rappresenta il dio Shiva. ACan_FutureDaysRemastered(LP)ppare, inoltre, anche come emblema di unificazione nelle antiche tribù slave che una volta popolavano l’Ucraina e fu ulteriormente usato nelle campagne di Russia durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il passaggio cupamente esoterico di Ege Bamyasi e Tago Mago cedette il posto ad una esuberanza di ritmi afro-beat coniugati ad un trascendentale ambient. Quella pausa estiva nel 1973 contribuì sicuramente nella formazione ponderata di una nuova frontiera sonora, meno sconvolgente e più razionale – proprio in quel periodo, vi furono, infatti, una serie di eventi che sconvolsero il nucleo dei Can: dall’ulcera perforata di Michael Karoli, ai disastrosi problemi finanziari della band ma, soprattutto, l’adesione ai testimoni di Geova di Damo Suzuki, che sposerà la sua devota moglie abbandonando la band dopo la pubblicazione di Future Days

Questo album a tema nautico non perde tempo a convalidare la sua simbologia già nella traccia d’apertura, creando un paesaggio sonoro di onde oceaniche che si infrangono nella consistenza vaporosa di “Future Days“, immergendo l’ascoltatore in 9 minuti di ritmi sognanti, melodie sperimentali e sussurri embrionali, quasi a metà tra il sonno e la veglia. La traccia si costruisce molto lentamente e sembra non accadere nulla, come ci si potrebbe aspettare dai Can, nonostante tutto diventi improvvisazione, calma ma irregolare, con la voce soffocata ed estraniata di Suzuki che ogni tanto emerge dagli abissi come un mostro marino. Il sisma sonoro di Spray” inizia poi come un esperimento percussivo, ma la seconda metà dimostra la natura più dolce del disco, con l’organo di Irmin Schmidt ed il canto spesso incomprensibile di Damo Suzuki che si inseriscono in una tela di stratificate percussioni e trame elettroniche, miscelate perfettamente con le chitarre. La batteria di Leibezeit è sempre di enorme ispirazione e sembra reggere questo intero arazzo di “composizioni istantanee” superbamente, dando alla traccia un’aria di spirituale caos controllato. In seguito, Moonshake” parte per una tangente più pesante, con un ritmo profondamente funky e coinvolgente: non si tratta proprio di rock progressivo, ma comunque sembra chiudere il lato con una sensazione più “commerciale”, oserei dire quasi (inaspettatamente) melodica.

Dall’altro lato del vinile, “Bel Air” viene spalmata su tutta la seconda facciata e tende a vagare un po’, un dato che può essere utile a spiegare il motivo per cui molte persone bollarono questo album come un esempio di semplice “rock sinfonico” nel corso dei decenni – questo giudizio non è del tutto veritiero, ma la lunghezza ed il tenore della traccia certamente contribuirono ad alimentarlo, virando verso un rock più aulico rispetto alla sovversività tipica dei prodotti del Krautrock. Il titolo stesso ed i suoi echi di brezza marina danno comunque un utile indizio sul suo suono, con uno sviluppo graduale che ne fanno una delle più singolari epopee del genere, trovando una sonorità trasversale che deriva dalle lezioni di Stockhausen ma che approda qui in una nuova dimensione ad espansione variabile.

Future Days, come si evince dal titolo, annunciò giorni nuovi, ed in questo le aspettative non possono essere deluse. Holger Czukay non fu molto entusiasta di quest’album e, per questo, Future Days si inserisce in quella categoria di grandi dischi ripudiati in seguito dai loro stessi creatori (Atom Heart Mother, Ummagumma, Lizard – tanto per fare tre noti esempi). Ci sono ancora molti elementi dei Can di Tago Mago, in particolare la sezione ritmica sempre molto versatile, tuttavia si tratta di un album molto più melodico: la produzione è molto attenuata, abbassando il volume di tutti gli strumenti, specialmente le parti vocali che sembrano annegare nella musica ma, naturalmente, questo espediente è soltanto un’altra, l’ennesima, forma di sperimentazione. La maggior parte dei crediti per ciò che concerne l’ingegneria e l’editing vanno a Holger Czukay e Irmin Schmidt che sperimentarono con successo tastiere, synth e svariati effetti sonori che, a volte, ricordano alcune opere di Brian Eno. La voce di Suzuki è meno presente rispetto al passato, anche se quei rari momenti si inseriscono molto bene nel quadro sonoro globale. Per tutti questi motivi, per quegli ascoltatori di progressive classico che non sono particolarmente innamorati del lato più sperimentale del Krautrock, Future Days potrebbe essere il posto migliore per iniziare ad esplorare questa straordinaria band.

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