Captain Beefheart and his Magic Band – Safe as Milk

“Listen, be quiet and pay attention to this man’s music. Because, if you don’t, you might miss something important.”

È difficile introdurre un colosso se non noleggiando le parole di un altro gigante, Frank Zappa: così infatti egli presentó in un festival belga il suo vecchio amico, all’anagrafe Don Glen “Van” Vliet, alla storia Captain Beefheart.
Personaggio eccentrico, eclettico, dispotico, surrealista, un “capitano senza barca” come amava definirsi… In molti lo hanno bollato semplicemente come uno dei tanti “fattoni” dell’epoca. Niente di più lontano dalla verità: proprio come Frank, Don non fece uso di droghe e ammoniva chiunque suonasse con lui di stare alla larga dall’LSD e dalla marijuana.
Safe as Milk è l’insano prodotto di una sana personalità che non aveva bisogno di carburanti esterni, registrato nella primavera del 1967 ai Sunset Sound Studios di Hollywood con a bordo, oltre al poliedrico Capitano, Alex Snouffer e un giovane Ry Cooder alle chitarre, Jerry Hansen al basso e John ‘Drumbo’ alle percussioni.
Tutte le canzoni furono scritte da Vliet, fatta eccezione per “Grown Ugly” del bluesman Robert Pete Williams. Un certo Herb Bermann aiutò il Capitano nella stesura dei testi: curioso il fatto che fino al 2003 l’identità dell’uomo rimase un mistero, tanto che perfino alcuni membri della band pensavano a lui come ad una sorta di nemesi di Don. Dopo decenni di ipotesi più o meno fantasiose, l’uomo – che si rivelò essere un poeta, compaesano di Vliet – confermó la sua partecipazione alla stesura dell’album e concesse un’esaustiva intervista a riguardo.

L’opening track, “Sure nuff ‘n’ yes, I do“, dal tradizionale riff di “Rollin’ and thumblin'” di Muddy Waters viene denudata e rivestita di un sound freak di matrice decisamente blues (e proprio il Delta blues è la “chiave bulgara” dell’album). I versi che introducono la canzone presentano anche la sua simbiosi con il suo ambiente naturale: leggenda vuole che Don vivesse infatti in una roulotte nello sperduto deserto del Mojave, e che ne fosse in grado di sentire la voce.
La seguente “Zig zag wanderer“, la mia traccia preferita, è il risultato di una semplicità confusa e sconcertante, mentre “Call on me” strizza a tratti l’occhio al doo-wop per poi respingerlo in una ballata alquanto schizofrenica. “Dropout boogie” è il momento più tetro del disco (complice la voce gutturale, resa quasi fastidiosa di Don) ma risulta di una bruttezza attraente, eppure non si riesce a spiegarsene il motivo (sindrome di Stoccolma?).
I’m glad, in puro stile Otis Redding, appare come un intermezzo di pace dopo la confusione e prima del caos di “Electricity, forse la canzone più conosciuta – riproposta anche dai Sonic Youth – in una tempesta strumentale con lampi di theremin, slide guitars e chi più ne ha più ne metta. Un giornalista la descrisse come “una canzone blues non convenzionale” e penso che la definizione calzi a pennello: il blues lo distrugge, lo plasma, lo rianima… Ma dentro alla tempesta non smette mai di respirare, neanche quando sembra mezzo moribondo. È spettacolo anche ciò che Don riesce a fare con la sua voce, dettando il ritmo come un direttore d’orchestra.
L’irresistibile “Yellow brick road” (un titolo-allusione al mago di Oz?) è una canzone orecchiabile, dal retrogusto country, una di quelle dannate canzoni che prendono posto nella nostra testa senza chiedere il permesso di sedersi, in pura osmosi con l’anima, mentre la folle “Abba Zaba” (che trae il suo titolo dal nome di un bar) è l’anticamera ai successivi lavori del Capitano, sicuramente più ermetici di questa prima fatica – complici un cambio di musicisti e la produzione di Frank Zappa. In questo brano si flirta inoltre con lo stile musicale dell’Africa occidentale (cito i ben più tardivi Soto Koto tanto per dare una vaghissima idea). La successiva “Plastic factory” si riavvicina al country dopo una momentanea pausa di riflessione, guardandolo però sempre a distanza di sicurezza, come un amico da cui stare in guardia; ma il meglio forse viene con “Where there’s woman“, capolavoro blues con guest-star il grande Taj Mahal in una graffiante ballata psichedelica mentre “Grown so ugly” prosegue questa strada in maniera più convenzionale (si tratta pur sempre di una cover di Robert Pete Williams).
La chiudifila “Autumn’s Child“, a colpi profetica del nascente progressive, suona abbastanza zappiana (senza dubbio lo Zappa di “Freak out!“): una traccia interessante, poliedrica, tutta da gustare… Ed è un cerchio che si chiude in maniera perfetta.
Se cercate la title-track non la troverete qui ma bensì nell’album successivo, Strictly personal (mentre compare soltanto nelle successive edizioni di Safe as Milk, con altre bonus track).

Due curiosità: John Lennon fu uno degli estimatori dell’album, celebre una foto in cui compaiono a casa sua gli adesivi promozionali del disco (nonostante Captain Beefheart e Frank Zappa nei loro versi spesso indirizzarono frecciatine sarcastiche proprio verso i Beatles e mai riconobbero il loro – presunto – talento).
Inoltre, la copertina dell’album doveva essere un collage della band con una delle citazioni più famose di Don (“may the Baby Jesus shut your mouth and open your Mind“) , progetto che venne rifiutato dalla casa discografica per ovvi motivi e sostituito con la trita e ritrita foto fish-eye a cura di Guy Webster.

Il Capitano-cuore-di-manzo non venne compreso dalla critica musicale dell’epoca, anzi. Nel 1982 dopo numerose stroncature decise di dedicarsi unicamente all’altra sua grande passione, la pittura (arrivando ad esporre anche al MoMA di New York!).

Che altro dire? Un album di debutto di un livello sopraffine, la sua voce ha una estensione pazzesca e si amalgama in maniera naturale alla texture strumentale che la sua magica band riesce ad ordire (e c’è da dire che avere a bordo un talento come Ry Cooder può fare davvero la differenza!). Lo consiglio a chiunque sia stufo di ciò che propone il mainstream: Safe as Milk è un disco che fa riscoprire la fede nella musica.

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