Colosseum – Valentyne Suite

I Colosseum nacquero ufficialmente nel 1968 e furono una formazione essenziale nel processo evolutivo del rock progressivo: tutto iniziò con l’incontro tra il sassofonista Dick Heckstall-Smith con il tastierista Dave Greenslade, il bassista Tony Reeves, il chitarrista James Litherland ed il batterista Jon Hiseman, tutti partecipi del revival blues britannico nelle band di Graham Bond, Alexis Korner e John Mayall. Nel marzo del 1969 uscì il primo album (Those Who Are About to Die Salute You, Fontana, 1969), un’innovativa mistura di rock, jazz e blues che anticipó le tipiche istanze del prog inglese e che piacque molto anche al grande pubblico, entrando in classifica al numero 15 e, dirottati nei mesi seguenti alla scuderia progressive per eccellenza, la Vertigo (di proprietà della Philips), nel novembre dello stesso anno i Colosseum portarono a compimento l’ambizioso Valentyne Suite, il primo album in assoluto pubblicato dalla storica etichetta swirl.

Se il primo disco vedeva i Colosseum fortemente radicati nelle loro origini blues (in particolare l’R&B di Graham Bond), in questo secondo lavoro si mossero repentinamente nell’arena del rock, con sezioni a mano libera più brevi e meno indulgenti, dando al disco un aspetto generalmente più accessibile. Dal punto di vista visivo, spicca indubbiamente la nota copertina con l’inafferrabile e nivea donna posta in piedi accanto ad un candelabro dalla forma massiccia che richiama quasi un razzo spaziale (non a caso, le note di copertina furono scritte da Hiseman il 21 luglio del 1969, mentre Neil Armstrong metteva piede sulla luna): questa cover è l’opera1592384 “battesimale” di Marcus Keef, che come Rick Breach (Catapilla, Warhorse, Gentle Giant) legò il proprio nome alla Vertigo, collaborando negli anni con formazioni come i Black Sabbath, i Nirvana inglesi ed i Cressida: le sue copertine sono fondamentalmente fotografie paesaggistiche trattate con tecniche particolari, che tendono a colori pallidi e sfumati, in cui vi è l’inserimento costante di una sfuggente figura femminile. La musica, d’altro canto, non si erge sullo stesso pacato paesaggio sonoro, anzi: vi è una forte enfasi sui riff della chitarra, sui fiati e sugli spaccati dell’organo Hammond, dimostrando una coesistenza irrequieta di blues, heavy rock e jazz rupestre, tenuta assieme grazie alla diplomatica mediazione degli arrangiamenti di Neil Ardley e dei testi di Pete Brown.

Si inizia con la psichedelia hard-rock alla Cream di “The Kettle“, col suo testo non-sense e la sua cruda frivolezza che si pone tra i maggiori lavori commerciali della band, ma che riesce ancora ad irradiare qualche bella tessitura orchestrale grazie al lavoro della chitarra di James Litherland, e la sua sensazione è mantenuta in vita nell’impennata jazz-rock di Elegy“, uno dei pezzi più insoliti dell’album, anche grazie al dibattito sconnesso tra l’organo ed il sax, sedato solo dalla calda voce di Litherland. La flemmatica “Butty’s Blues” viene invece diretta da Neil Ardley e, come facilmente si evince dal titolo, è una canzone blues abbastanza tradizionale, con qualche indiavolato passaggio strumentale guidato dai fremiti jazzisti di Heckstall-Smith. Una curiosità: Butty era il soprannome che Dave Greenslade aveva dato a James Litherland e nello slang indica una spessa fetta di pane e burro. 

Il rock pagano di “The Machine Demands a Sacrifice” chiude il primo lato con una composizione che si trasforma nei minuti finali in una sorta di avanguardia tribale, soprattutto grazie al lavoro della sezione ritmica che alterna un affascinante jazz nella prima parte all’aggressività percussiva della seconda metà (Hiseman, ricordiamo, fu anche l’inventore della doppia cassa), il tutto incollato con assoluta scioltezza. La robusta e barocca “The Valentyne Suite” copre tutto il lato B del disco, contenendo praticamente tutti gli ingredienti del rock progressivo: si tratta di un opus magnum di 17 minuti, diviso in tre temi uniti in forma circolare, con lunghe jam strumentali dove il jazz incontra la psichedelia in uno dei primi esempi di rock progressivo. La suite é interamente dominata dalle tastiere pompose di Greenslade, che aggiunge una leggera dose di condimenti classici sulle sue performance sull’organo e sul pianoforte, ed infatti nella prima sezione (January’s Search“) e nella seconda (“February’s Valentyne“), Dave si impegna in conversazioni strumentali con gli altri membri della band, equilibrando il blues e le influenze jazz con momenti veramente progressivi, ma i temi rock su cui la traccia si basa raramente permettono alla musica di allontanarsi troppo nei territori dell’improvvisazione. L’ultima sezione doveva in origine essere “Beware The Ideas of March” (incluso come brano nel primo LP) ma venne sostituita dall’inedita The Grass Is Always Greener“, scritta da Jon Hiseman e Dick Heckstall-Smith, che è fondamentalmente una ripresa del dirompente tema d’apertura con la presenza del vibrafono di Greenslade.

Esistono due versioni nettamente diverse del disco, dato che nella versione americana Valentyne Suite venne rilasciato senza la suite omonima ma con nuove registrazioni eseguite dalla formazione successiva dei Colosseum: difatti, questa storica e prima line-up si sgretolò poco dopo l’uscita dell’album e venne rimpiazzata da Clem Clemson (chitarra), Mark Clarke (basso) e la voce di Chris Farlowe, altra figura fondamentale del blues britannico, una nuova band che uscì nel 1970 con le sonorità più dure di Daughter of Time. La lezione dei Colosseum sarà poi ripresa dal tastierista Dave Greenslade, con il gruppo che porta proprio il suo nome, mentre l’appendice fusion dei Colosseum II con Gary Moore è storia abbastanza superflua, e questo disco riverbera ancora ai giorni nostri come il capolavoro insuperabile della band.

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