Dedalus – Dedalus

Originari dalla provincia di Torino, in bilico tra il jazz-rock di Miles Davis e la sperimentazione dei Soft Machine, i Dedalus si misero in mostra come gruppo rivelazione al Festival di Avanguardia e Nuove Tendenze di Napoli nel 1973, prima di giungere all’omonimo esordio discografico nello stesso anno; il complesso nacque dall’unione dei due fratelli Di Castri (il chitarrista Marco ed il bassista Furio) con il compositore Fiorenzo Michele Bonansone (pianista e violoncellista) ed il diciottenne batterista Enrico Grosso: all’inizio del 1973 il complesso si recò a Torino per proporre un loro pezzo ad una nota etichetta del capoluogo piemontese, ma questo brano, pur apprezzato, venne rifiutato perché “è come se la vostra musica si trovasse al settimo piano, mentre il  pubblico è al piano terreno: dovreste scendere almeno di qualche piano”. Dopo alcuni festival, nell’estate dello stesso anno ben tre major discografiche offrirono ai Dedalus un contratto per la produzione di un primo disco, ma il gruppo optò per la nuova etichetta di Maurizio Salvadori, la Trident, famosa per garantire una maggiore libertà d’espressione ai propri artisti.

Il primo 33 giri confermòDedalus_1973 la loro originalità, con la critica che riservò al quartetto dei giudizi lusinghieri (“Una delle pochissime realtà Italiane che aveva arricchito i fraseggi con esperienze personali di ricerca. Unico esempio di come si possa affrontare la sperimentazione con idee fresche e geniali evitando presuntuosi intellettualismi” scriverà a riguardo il “Libro bianco del pop in Italia”) che però non si tradussero in risultati commerciali di rilievo. Il disco, racchiuso in una delle più belle copertine di quegli anni, venne confezionato dallo “Storm Thorgerson italiano” Cesare Monti, e contiene alcuni spunti avanguardistici che saranno poi maggiormente sviluppati nel successivo Materiale per tre esecutori e nastro magnetico. Il disegno in prima pagina raffigura la band con delle vistose teste da orologio, a simboleggiare la tecnica sopraffine del gruppo – preciso al metronomo- e che deve il proprio nome al Daedalus latino che rimanda proprio a qualcosa di ingegnoso ed abile, ma Dedalo fu anche il personaggio della mitologia greca costruttore del labirinto di Cnosso, nel quale fu imprigionato con suo figlio Icaro dal re Minosse per aver costruito la mucca in legno nella quale la regina Phasiphae si accoppiò con il toro sacro inviato da Poseidone, dalla cui unione nacque il famigerato Minotauro.

Uscito nel 1973, questo LP cattura perfettamente le istanze sperimentali del jazz, in modo non poi tanto dissimile dai Soft Machine, che scivolavano però più spesso nei territori dell’avanguardia; a differenza di altre opere contemporanee, questo album è tuttavia vaporizzato dagli interventi chitarristici più pop del chitarrista Marco Di Castri e del violoncellista Fiorenzo Michele Bonansone, in un’eclettica sinergia capace di plasmare un suono sempre caldo ed informale, oscillante tra la frenesia fusion della Mahavishnu Orchestra e passaggi più elaborati alla Weather Report, in cinque brani strumentali di grande evocazione. 

Con la partecipazione del percussionista degli Aktuala, Renè Mantegna, ha inizio “Santiago“, un numero jazz-fusion con un organo distorto che vira dritto verso Canterbury, offrendo un gustoso anticipo del roboante violoncello di Bonansone, che rimanda alle derive cosmiche pinkfloydiane di “Ummagumma”; la successiva Leda” tende invece più verso lo space-rock, con una interazione magnetica tra basso, sax, piano elettrico e batteria che sfocia dritta nella complessa “Conn“, forse il brano più sperimentale del disco, tra rullate insistenti, ritmi sincopati e gustosi assoli che gettano le basi per le texture casuali che si sovrappongono nella parte superiore del brano. Il pezzo più riuscito del disco è, però, indubbiamente CT6“, un’epica strumentale che si protrae per ben 14 minuti, iniziando elettronicamente fino ad assestarsi in una modalità jazz imperiale, con l’entrata del sax che sigillerà anche la traccia, che contiene pure una lunga parte di violoncello ad aumentare il tasso di originalità di questa musica, capace di combinare saggiamente le complessità trascendentali di Coltrane al jazz sensuale di Freddie Hubbard, il minimalismo zen di Terry Riley al funk esotico di Eumir Deodato, grazie soprattutto all’innesto delle percussioni africane di Renè Mantegna.
Chiude questo breve album “Brilla“, una rilassato bossanova cullato dal sax ed dal pianoforte, supportati delicatamente dal basso e dalla batteria, fino all’entrata della chitarra dopo un paio di minuti, per poi chiudersi proprio come è iniziata, senza eccessivi colpi di scena nè punti esclamativi. 

Dopo questo primo disco, i Dedalus proseguirono come trio con l’abbandono del bassista Furio Di Castri che si darà alla carriera solista come contrabbassista jazz. Il secondo album, Materiale per tre esecutori e nastro magnetico (1974) si discostò molto dal primo lavoro, con suoni più avanguardistici e concreti ed un largo uso dell’elettronica; nel 1977 se ne andrò anche il batterista Enrico Grosso ed i fratelli Di Castri rimasero soli, trovando il tempo di collaborare però con il sassofonista Steve Lacy prima dell’inevitabile scioglimento. Dal 1990 molte sono state le riunioni, tutte guidate da Bonansone, che spostarono la poetica del gruppo verso la musica da camera ma senza realizzare prodotti discografici di rilievo, ad eccezione di Pia Visione, nel 1977, un album auto-prodotto e distribuito in poche copie a cui seguirà nel 1999 il CD di Pezzi Inediti 1975/76 + Materiale per tre esecutori e nastro magnetico (prodotto da Elica). Dal 2000 Bonansone formò un nuovo gruppo chiamato “Bonansone Dedalus Group”, che rimase fedele ai principi sperimentali del nucleo storico, presentandosi tuttavia con un nuovo stile post-minimalista.

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