Delirium – Dolce Acqua

La nascita dei Delirium va fatta risalire al lontano 1970, quando un giovane Ivano Fossati comprò una chitarra ed un amplificatore semiprofessionale per centocinquantamila lire e si unì ai Sagittari, un quartetto votato alla musica commerciale, nella cui formazione figuravano il leader Ettore Vigo (tastiere, voce), Mimmo Di Martino (chitarra e voce), Marcello Reale (basso e voce) e Peppino Di Santo (batteria); con l’arrivo di Ivano Fossati la band cambió il proprio nome ma soprattutto il suo genere, firmando un contratto per la Fonit Cetra, con il patrocinio artistico del chitarrista Nico Di Palo dei New Trolls, che sigillò con Fossati il primo singolo della band, “Canto di Osanna”, vincendo con questa canzone il Festival d’Avanguardia e Nuove Tendenze di Viareggio. Nell’estate del 1971, dopo la partecipazione al Festival Pop di Palermo, il quintetto genovese iniziò a dedicarsi alla stesura del disco di esordio, al quale vennero forniti due possibili titoli: “Dall’Osanna… All’Iesael” o il similare “Dal Delirio… All’Iesael”, facendo intendere così l’inclusione della futura hit sanremese di “Jesahel”, che venne poi tolta per esser salvaguardata in vista della celebre manifestazione canora; venne escluso a sorpresa anche il primo singolo che portò alla ribalta i Delirium, a favore delle composizioni che avevano presentato nei concerti nei mesi precedenti alla realizzazione del disco.

Dolce acqua segue fondamentalmente l’assioma enunciato da Ivano Fossati (“tutto ciò che poteva essere semplice veniva complicato sulla falsariga dei King Crimson“), in una sorta di concept-album sui sentimenti umani la cui musica fornisce una commistione sorprendente di progressive, folk, jazz, influenze classiche, tradizione sinfonica, world music e poesiaDolce-Acqua-cover. Dolceacqua è il nome di una città ligure con cui il quintetto ha voluto omaggiare le sue radici, mentre le note di copertina originali, scritte dalla cantante ed organizzatrice Lilian Terry, pongono i Delirium in parallelo ad artisti del calibro di Colosseum e Blood, Sweat & Tears. La grafica colorata che confeziona il disco è apribile in tre parti (un’opera siglata da un certo “Gigi”) con un retrogusto hippy che si pone in forte associazione ai titoli delle canzoni contemplativi e coi testi scritti da Ivano Fossati; la firma per quanto concerne le musiche è di Mario Magenta (dirigente della Fonit Cetra), che in realtà non aveva affatto partecipato alla realizzazione del disco, ma dovette firmare i brani poiché all’epoca nessun membro dei Delirium era iscritto alla SIAE.

Un sibilo seguito da un tonfo, poi il suono del flauto ed infine la chitarra acustica danno il via a “Preludio (Paura)“, una ballata trasognante con la voce di Ivano Fossati e di Mimmo Di Martino che interagiscono molto dolcemente, impostando il ritmo per la successiva Movimento I (Egoismo)“, che esplode nel flauto maniacale di Fossati in un ritmo sinuoso e ballabile, in aspro contrasto col testo del tutto privo di speranza (“Io, non ho padre. Io, non ho madre. Nella, nella mia vita non ho amato nient’altro che me“); l’estasiante “Movimento II (Dubbio)” segue poi tra tastiere e flauto, con dei bei svolazzi classici nella fase di chiusura, come contrappunto ottimista al brano precedente (“Certo è meglio, non pensare avrò tempo di cercare, forse è meglio non sapere, non sentire, non vedere, non cercare, non cercare. Avrò il tempo di sapere, di capire e forse più…“), mentre la prolissa “Per Satchmo, Uccello e altri amici indimenticabili (Dolore)” chiude la prima parte del disco, in un viaggio strumentale ancorato dolorosamente dal flauto di Fossati e dal piano di Ettore Vigo.
Il secondo lato inizia con un altro brillante brano strumentale, Sequenza I e II (Ipocrisia – Verità)“,  introdotto da una chitarra acustica e con una melodia orecchiabile che si scioglie in una melodia jazz sui generis, dopo l’interruzione di un breve assolo di batteria, con qualche aggiunta canticchiante dell’organo Hammond a riportate a galla ancestrali verità. La delicata “Johnnie Sayre (Il Perdono)” riadatta invece la poesia di Edgar Lee Masters “Strappato al male a venire” dall’ “Antologia di Spoon River”: “Padre tu non sai l’angoscia del momento in cui la ruota di quel treno fu su di me e ti chiedo perdono. Mentre mi portavano giù per la collina vidi ancora la scuola che saltavo per salire a giocare sui treni. E pregai di vivere tanto da provare il conforto di chiedere perdono a te che ancora non sapevi. Dopo venne la tua voce, le tue lacrime grandi mi bagnarono il viso ormai non l’avrei fatto più. Si tratta fondamentalmente di una vetrina vocale per la qualità di cantastorie di Fossati, lungo un percorso popolare segnato da strepitanti tamburi e voci in background, prima del ritorno confortante della voce di Ivano che porta la traccia alla sua conclusione naturale. Una curiosità: Edgar Lee Masters e la sua “Antologia di Spoon River” erano diventati un vero e proprio oggetto di culto in Italia tra la fine degli anni Sessanta ed i primi anni Settanta, ed anche Fabrizio De André andò ad omaggiarlo in diverse sue opere. 
Il cantico liquido di “Favola o storia del Lago di Kriss (Libertà)” racconta di un lago che vorrebbe uscire dalle sue sponde per esplorare il mondo degli uomini (“E la mia preghiera l’affido a te, fa che io possa vedere il mondo degli uomini e le donne e il mare più profondo, le terre più lontane che potrò scoprire, la luce più abbagliante che potrò vedere, sto da mille anni fra queste rive e la mia preghiera l’affido a te“), con la voce di Fossati che quasi scende a gorgheggi acquatici in una canzone folk un po’ ripetitiva, ma con qualche improvvisa orchestrazione spettrale di grande visionarietà. Dulcis in fundo la raffinatissima “Dolce acqua (Speranza)“, quasi completamente strumentale, con una bella melodia introdotta dal flauto in un crescendo di voce, pianoforte ed una morbida sezione di archi: “Verde prato dentro me, la tempesta passata non è, ma vedo dolce acqua“. 

Nella versione rimasterizzata si aggiunse la canzone più famosa dei Delirium, “Jesahel“, che rimane, ancora oggi, la loro più importante hit commerciale ed uno dei brani italiani più memorabili di sempre. In conclusione, Dolce Acqua è un album certamente degno di una menzione speciale, dovuta in particolare alla sua delicata e soave varietà di suoni e di radici, che ingloba il jazz, il blues ed il folk alla sensibilità tradizionale; tuttavia, anche se privo degli eccessi del progressive, il suono generale dei Delirium è lontano anni luce anche dall’approccio decisamente più tradizionale di band come i Dik Dik o i Pooh, data anche l’esclusione di canzoni d’amore dall’album: tutte le tracce sono invece strutturate come una suite in otto movimenti, ognuno dei quali dedicato ad una particolare emozione – ed è proprio interessante notare come l’amore sia stato omesso dalla lista. Dal punto di vista strumentale, la voce intensamente espressiva di Ivano Fossati è probabilmente l’elemento più caratteristico di Dolce acqua, insieme al suo modo di suonare il flauto, melodico ed aggressivo a seconda dell’evenienza, magari non molto tecnico, ma sempre essenziale nella tenuta della struttura musicale.

Come accennato in precedenza, dopo soli due mesi dall’uscita del disco, i Delirium si trovarono a sbancare Sanremo con “Jesahel”, un successo inaspettato e travolgente, che di fatto fece perdere l’orientamento al quintetto, diviso tra la smania di popolarità (fomentata dalla Fonit) e la ricerca musicale in chiave rock. Così Ivano Fossati, approfittando della chiamata di leva, lasciò la band nel 1972, sostituito dall’inglese Martin Grice. A fine anno avvenne la pubblicazione del secondo disco, Lo Scemo e il Villaggio, in cui il complesso cercò di recuperare la sua vecchia voglia di sperimentare, cosa che però riuscì con più efficacia e convinzione in Delirium III, nel 1974, nell’ultimo canto del cigno prima dell’inevitabile scioglimento.

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