Embryo – Opal

Oggi sono decisamente in vena di avanguardia teutonica, quindi ecco che rispolvero un disco che non ascoltavo da almeno un paio di anni: Opal.

Premessa: la stampa tedesca dell’epoca paragonò gli Embryo ad un biglietto aereo senza destinazione, ed è una similitudine azzeccatissima per quella che è una delle prime band di world-music senza frontiere (nè pudori, aggiungerei). Caposaldo del gruppo rimase sempre il polistrumentista Christian Burchard, che ad Hof verso la metà degli anni Cinquanta incontrò per la prima volta il batterista Dieter Serfas all’età di dieci anni, con il quale fondò gli Amon Duul e collaborò in diverse occasioni. Durante la sua lunga carriera, Christian vide suonargli accanto una sessantina di musicisti, provenienti da ogni parte del mondo (anche un’orchestra afghana!) e nel 1979 la band iniziò perfino un tour di nove mesi per l’India in autobus, una vicenda che è stata documentata dal film “Vagabunden Karawane”.

Il nucleo originale degli Embryo in questo primo lavoro è abbastanza numeroso e comprende, oltre al vocalist Christian Burchard, Ralph Fischer al basso, Edgar Hofmann agli strumenti a fiato e alle percussioni, il futuro Ten Years After  John Kelly alla chitarra e gli ospiti Bettsy Alleh (voce), Robert Detrée (motocello, una specie di violino stridente home-made), Lothar Meid (basso) e Holger Trülsch (bongo).

La cover dell’album, rilasciatEmbryo Opalo dalla Ohr del 1970, prevedeva al centro una fessura che conteneva un palloncino, che in realtà aveva una consistenza abbastanza strana. Il lavoro in studio fu registrato dal factotum Christian Burchard.

La title track “Opal apre la macabra danza, con la voce e la melodia che vengono entrambe quasi sussurrate; avanza in seguito maniacalmente attraverso un basso ipnotico ed un ripetitivo violino/motocello: l’importanza proprio di quest’ultimo nella gerarchia del suono porta decisamente alla mente gli Amon Duul di Yeti. Dopo un inizio libero e sciolto, You don’t know what’s happening è una traccia frenata e misteriosa, con una voce più urlata ed un tune raggelante. Ci sono alcune chiare influenze fusion (Miles Davis in prima linea), un selvaggio sax che svetta sopra alcune progressioni di accordi hard-rock e percussioni energetiche che stanno sotto i riflettori durante la maggior parte della composizione.
Le seguenti tracce strumentali mettono maggiormente in luce l’eclettismo della band; “Revolution“,  in primis, delega il comando al sax, che interpreta la melodia principale della canzone, nonostante un gran tripudio di sonorità e di strumenti: da questa traccia in poi il sassofono inizierà a prendere prepotentemente l’iniziativa, fornendo un’angolazione più jazz. Glockenspiel non dispone di un nessun “gioco di campane” a dispetto del titolo, ma sono il basso e la batteria a cementificarne la base, non rispettata dal sax che trasgredisce con alcune melodie dissonanti, mentre la seguente Gotnotime(Got no time) è un altro breve brano spaziale, simile al precedente ma con meno carisma.
Call ci fornice una specie di incrocio imbastardito tra il free jazz e la psichedelia rock, con qualche confuso cenno di organo e grandi momenti di chitarra elettrica. Alla seguente “End of soul” ritorna la parola, con un recitativo steso su una magnifica tela strumentale, pennellata da tamburi a mano libera, una chitarra rhythm & blues, un basso frenetico ed un violino d’avanguardia jazzLa visionaria e conclusiva “People from out the space” si apre con un po’ di atmosfera cosmica prima di poter distinguere sax, batteria e basso: è sicuramente il momento clou, che prefigura le sonorità del successivo Embryo’s Rache (1971, United Artists), un altro album sublime che coglie pienamente lo spirito del Krautrock.

Opal è molto diverso dalle opere successive e, in effetti, si tratta di una versione embrionale del gruppo. E’ per lo più un rock psichedelico d’avanguardia, sfigurato in volto da un acido jazz; forse le parole di uno dei maestri dichiarati del gruppo, Miles Davis, li rende alla perfezione: “That german hippy group […] they are doing interesting things. You know, man? They are creative, good musicians, just playing good shit. E coprofagia sia, allora!

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