Faust – Faust IV

Che bizzarra la storia di questi Faust… 

Dopo un primo album omonimo (Polydor, 1971) seguito da So Far (ibid. 1972), questo terzo disco venne registrato ai Manor Studios di Oxford nel giugno del 1973 e rilasciato lo stesso anno dalla neonata Virgin, con l’inedita produzione di Uwe Nettelbeck: questi era un giornalista di sinistra che si improvvisó mecenate, riuscendo a fare firmare ai Faust il primo album per la Polydor senza neanche farli suonare una nota. In seguito Nettelbeck trovò alla band una vecchia scuola a Wümme (in Sassonia), che diventerà la loro base operativa, con uno studio di registrazione gestito dal tecnico Kurt Grauper. L’inizio non è però dei più facili (con la Polydor assai scioccata!) ma riuscirono ad avere il sostegno di John Peel, un famosissimo disc jockey dell’underground inglese che si innamoró del primo LP della band (Faust, 1971), soprattutto per la curiosa copertina con la radiografia di ufaust-ivna mano.

Chi sono questi inesperti giovani che prendono il loro nome dalla celeberrima opera di Goethe, vendendo l’anima alla musica? Rudolf Sossna (chitarra e tastiere), Jean-Hervè Peron (basso), Hans-Joachim Irmler (organo), Gunther Wusthoff (synth e sax) e Werner “Zappi” Diermaier (batteria) provengono dai dintorni di Amburgo, interessati principalmente alla cinematografia dell’avanguardia piuttosto che alla sfera musicale; pur non sapendo suonare, puntarono tutto sull’ingenuità geniale di un approccio istintivo, con un risultato sorprendente, condividendo lo studio durante la registrazione di Faust IV con un giovane Mike Oldfield, che in quel periodo stava dando vita al futuro capolavoro Tubular Bells.

Il ronzio di “Krautrock” dà inizio all’album, legittimando il marchio con cui la musica tedesca era stata etichettata oltre-Manica in quegli anni. Si apre con un’elettronica vorticosa che suona come i Velvet Underground messi a soqquadro dai Neu!, in un’orchestrazione sconnessa di tamburi galattici, beat primitivi e musica elettronica, coniugata ad un ritmo ipnotico che la chitarra strascica più e più volte. Irmler dirà in seguito che il brano è stato ispirato dalla percezione della band di essere visti come “crucchi” ed è quindi un riferimento scherzoso alla musica “kosmische” (come veniva disprezzamente bollata dagli inglesi): un’opener che suona quasi come una dichiarazione di guerra musicale alla Gran Bretagna. Prima di poter esplodere in questa congestione sonora, arriva il divertissement di “The Sad Skinhead” che inizia come una canzonatura Sixties per poi prendere la strada del Reggae, roteando nell’irrequietezza di pochi versi e ironizzando sulla delinquenza della cultura giovanile (“Going places, smashing faces“). La follia prende poi ulteriormente piede con “Jennifer, un pezzo di donovaniana memoria, con una lirica ripetuta, palpitanti linee di basso, arpeggi di chitarra, una delicata elettronica berliniana, organi in lontananza ed una chiusura cacofonica che sboccia in un pianoforte honky-tonk: questo mosaico compositivo offre un perfetto sfondo per l’incandescente litania di “Jennifer, your red hair’s burning, yellow jokes come out of your mind“. E’ il momento migliore dell’album.

Just A Second (Starts Like That!)” inizia con una chitarra hard-rock, ma è solo un velo di Maya che si trasforma ben presto in un intreccio tra synth, imitando i suoni di un fiume elettrico gorgogliante in continui cambi di ritmo e fratturazioni stilistiche. Niente di male, ma si sta meglio dopo: il medley di “Picnic on a Frozen River (Deuxieme Tableux)” e “Giggy Smile” attraversa universi paralleli tra falsi blues-rock e surf-pop; la prima (una ripresa di un motivo del secondo album) inizia con una fastidiosa ma orecchiabile melodia rock, per poi scendere le scale dell’improvvisazione con un eccellente lavoro di sax; la seconda mette in mostra le inflessioni popolari dei Faust, in una grande canzone costruita sulla chitarra acustica, un violino stridente e delle insolite percussioni in stile finto-retrò, che ci trascina in una spirale di nevrastenico jazz .
L’infinita “Laüft… Heißt Das es Laüft Oder es Kommt Bald… Laüft” si dipana in seguito come un pezzo dal sentore ambient, parodia dei chansonnier parigini, in due righe in lingua francese (“Je n’ai plus peur de perdre mon temps, Je n’ai plus peur de perdre mes dents“), che però già dopo pochi minuti sembra procrastinare e che termina in maniera del tutto sconvolgente; lo shock permane con la conclusiva It’s a Bit of a Pain“, una chiusura inaspettata, al confine con la musica country e la psichedelica, scossa da alcune ignote voci femminili nel mezzo. 

Altamente sperimentali ed irriverenti, i Faust sono stati tra i principali promotori della scena Krautrock, producendo una serie di album coinvolgenti, eclettici e veramente innovativi nei primi anni Settanta; originariamente soprannominati come i “Beatles tedeschi” i produttori capirono però subito che i Faust erano tutt’altro e ne rimasero delusi: con un approccio ferocemente avant-garde, una curiosità per il pop-rock scanzonato (che porta alla mente il Kevin Ayers solista ed i Velvet Underground) ed una irriverenza umoristica fai-da-te che ha del proto-punk, erano ben lontani dagli stereotipi dei Fab Four.

La maggior parte dei fan del Krautrock avranno già sentito questo album: anche se non è così innovativo come il loro precedente lavoro, è decisamente più ascoltabile (noto che, anche se meno sperimentale, è comunque ben lungi dall’essere accessibile). Lo consiglio come un buon aperitivo per iniziare una fantastica cena tedesca, prima di affrontare piatti più calorici come Tangerine Dream o Popol Vuh, per esempio. In questo disco i Faust stabilirono uno stile più convenzionale e, inevitabilmente, finirono per dividere l’opinione pubblica come nessun altro; se questo album potesse parlare sussurrerebbe la dicotomia del Faust letterario: “Due anime albergano, ohimé, nel petto mio“: per alcuni (in particolare cito Julian Cope con la sua bibbia musicale “Krautrocksampler“) è il loro capolavoro perduto, per altri è soltanto il loro momento più debole. Io sinceramente sto con Cope, e voi? 

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