Faust – Faust

L’album di debutto omonimo della formazione più emblematica del Krautrock tedesco venne rilasciato dalla Polydor alla fine del 1971: nei primi mesi di quell’anno, i membri dei Faust vennero riuniti dal giornalista di sinistra Uwe Nettelbeck (anche associato alla Banda Baader Meinhof!) che si propose come produttore e manager, riuscendo a far strappare alla band un contratto con la Polydor senza neanche farli suonare una nota, convincendo l’ignara etichetta di avere tra le mani i nuovi Beatles, così che essa includesse nel suo pacchetto anche la fornitura dell’equipaggiamento, un tecnico del suono ed una sistemazione pagata per un anno intero. Fu così che Rudolf Sossna (chitarre e tastiere), Jean-Hervè Peron (basso), Gunter Wushoff (organo), Werner Diermaier (batteria) e Hans Joachin Irmler (organo) – allora dei giovani ragazzi della zona di Amburgo, con nessuna particolare esperienza alle spalle – si trovarono, con un contratto appena firmato, in una vecchia scuola a Wumme, nella bassa Sassonia, che divenne la base operativa del gruppo gestita dal tecnico Kurt Graupner. Ben presto, però, l’inesperienza si tradusse nella difficoltà di realizzare delle canzoni idonee ad un LP e la band si trovò così costretta a manipolare diverse registrazioni di jam session effettuate in precedenza per riuscire ad avere materiale sufficiente per il rilascio del disco. Il processo di registrazione toccó infatti soltanto 3 giorni: i Faust ebbero un approc3fzkOcVcio piuttosto inusuale e molto rilassato durante queste sessioni, stando anche a quanto rivelato dal batterista Werner Diermaier (“per il primo disco, il primo lato venne costruito e nel secondo fumammo molto hashish e bevemmo molto alcool. In tre giorni, il disco doveva essere pronto. E’ stato molto divertente“). Il gruppo adottò la tecnica del “taglia e cuci”, con spezzoni di varia provenienza, messi insieme nella più totale improvvisazione: il risultato sconvolse la Polydor, che voleva semplicemente trovare una risposta tedesca all’ondata britannica, e si trovò invece impreparata per una simile proposta artistica; l’inatteso sponsor arrivò, invece, da un personaggio leggendario dell’underground londinese, il famoso disc-jockey John Peel, che si innamorò subito della copertina del primo LP (“appena l’ho visto ho deciso che dovevo averlo“) e del vinile trasparente.

L’album è dominato da effetti sonori elettronici e percussivi, utilizzati in modo creativo in una musica mai prevedibile, che mette in evidenza particolari meravigliosamente inquietanti. Prima di tutto, però, il disco di debutto dei Faust è stato, di fatto, uno dei più grandi complotti dell’industria musicale: genio della trufffa artistica fu Uwe Nettelbeck nel convincere la Polydor Records che questi ragazzi anarchici potevano diventare i nuovi Beatles; la derisione dei Faust avviene già nei primi frammenti del brano d’apertura: Why Don’t You Eat Carrots” inizia infatti con strati di chitarra che scivolano brutali su alcune note prese da “Satisfaction” dei Rolling Stones e “All You Need Is Love” dei Beatles. Il brano pare coniugare la destrezza del jazz-rock alla gioia peculiare della fanfara, entrambi conditi da vocalizzazioni alla Frank Zappa ed effetti sulla slide-guitar: si tratta di un opus di aggressione musicale che si deposita poi in una serie squilibrata di musica da circo psichedelica condotta dal fuzz delle grintose chitarre. La pericolante Meadow Meal” ha invece due parti distinte: la prima è fondamentalmente stridente psichedelia rivoltata dalla musica concreta, mentre la seconda è costituita da inquietanti organi circondati dal rumore della pioggia tra nastri al contrario, interludi tastieristici spettrali fino al culmine di una fanfara elettricamente alterata. Vorrei poter tradurre il puro terrore romantico della traccia che, dopo un incantesimo mistico (“And the guess I get it, and the gate I get it, and the game I get it“) si frantuma in una parata garage-rock dai toni ambigui. 
L’iconoclastia anglosassone di “Miss Fortune” è la suite che riempie la il lato B dell’edizione in vinile, e ribadisce la propensione della band per un rock psichedelico imprevedibile, come esposto nelle precedenti due tracce. Registrata dal vivo a Wumme, si costruisce con tamburi e suoni spaziali tra chitarre roventi e declamazioni a comparti stagni, suonando come un collage casuale di nastri fino alla giocosa narrazione della chiusura, che oscilla su due voci perse tra altrettanti canali, in un interrogativo ironico e riflessivo allo stesso tempo (“Are we supposed to be or not to be?”), la cui risposta arriva nella sentenza lungimirante finale: “nobody knows if it really happened”. Nessuno sa se sia successo davvero. Appunto!

L’idea era di non copiare nulla che accadesse nella scena rock anglosassone“: questo fu l’obiettivo rivelato da Uwe Nettelbeck in seguito. Missione riuscita: l‘arrivo dei Faust potrebbe quasi essere considerata come la seconda tappa di un lungo percorso musicale che ha avuto inizio con Frank Zappa alla fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti, per poi continuare in Germania all’inizio del nuovo decennio e che, alla fine, chiuse il cerchio a San Francisco, in California, con gruppi come i Chrome ed altri discendenti diretti del metodo faustiano del patchwork, che raggiungerà il suo apice nel sottovalutato Faust IV

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