Faust’O – Suicidio

Articolo tratto da OndaRock

CHI HA VISTO FAUSTO CON LE SCARPE GIALLE? Fausto di anni 23 già dimorante a Cesano Maderno in Via Giordano Bruno, ove esercitava la macelleria Moncalvese, è andato via da casa dalla sua matrigna Maria il 25 febbraio u.s.: vestiva di chiaro con calzoncini corti, berrettino rossastro, camicia sport rosa, scarpe gialle alte. Chi avesse notizie dello scomparso è pregato di tenersele per sé, in modo da permetterci di annunciare ancora la sua… scomparsa.

La leggenda di Faust’o – pseudonimo di Fausto Rossi – inizia sopra un foglio di carta stampata. Un annuncio sul settimanale “Ciao 2001”, corredato da una foto che richiama l’immagine di copertina, dà il lancio alla campagna pubblicitaria del suo album d’esordio, provocatoriamente intitolato “Suicidio”. Era la primavera del 1978 e, solo da pochi mesi, il termine “new wave” stava iniziando timidamente a circolare in Italia grazie ai Chrisma, mentre la nostra penisola si muoveva tra l’eterna prog-mania e il cantautorato classico di Battisti e De André. Se soltanto a novembre verrà pubblicato “MONOtono” degli Skiantos a dichiarare guerra aperta al buon costume, il vero provocatore di quei mesi è il Giorgio Gaberdi “Polli d’allevamento”, nonostante il suo teatro-canzone non avesse di certo il fascino dei seducenti interpreti stranieri. Ci proverà poi anche Alberto Fortis con la sua invettiva contro i romani (“A voi romani”) e il discografico Vincenzo Micocci (“Milano e Vincenzo”), rientrando però con agio dentro i confini del politically correct.

Insomma, nulla di sconveniente stava accadendo fino ad allora. A scatenare il terremoto nella musica nazional-popolare ci pensa il ventitreenne Fausto Rossi, nato a Pordenone in una famiglia borghese ma cresciuto a Milano, dove inizia lentamente a innamorarsi della scena musicale anglosassone. Sin dalla copertina di “Suicidio” è palese il rimando alla mimica di David Bowie della trilogia berlinese, dove il bianco e nero della fotografia mette in risalto tutti gli spigoli del suo volto. Gli occhi di Faust’o fissano dritti in camera, sfidando l’ascoltatore e infrangendo un noto tabù del cinema narrativo classico. Lo sguardo provocatorio di Faust’o non si ferma tuttavia alla bidimensionalià della cover-art: per dimostrare il suo disprezzo verso la tradizione cantautorale nazionale, Rossi decide di attuare il paradosso di cantare in lingua italiana. Lo fa, peraltro, in un concept-album, il mezzo espressivo per antonomasia del progressive rock.

A cominciare dal suo involucro visivo, l’esordio di Fausto Rossi ha tutta l’aria di un attentato compiuto dall’interno, come la più raffinata delle rivoluzioni: il disco viene infatti pubblicato da una grande etichetta (la Cgd) e realizzato negli studi della Ricordi con l’aiuto del talentuoso Alberto Radius (Formula 3). Per compiere il suo “Suicidio”, il giovane Fausto inserisce un apostrofo grammaticamente fuori luogo all’interno del suo nome, al fine di crearsi uno pseudonimo decadente (solo nella seconda parte della sua carriera inizierà a incidere come Fausto Rossi). Sceglie inoltre di comporre una musica priva di filtri e barriere stilistiche, un autentico grido contro il conformismo dilagante. Gli arrangiamenti spaziano dunque con disinvoltura da momenti di vero e proprio art-rock, imprevedibile e violento, a sezioni più riflessive e cameristiche, su cui si innestano le tastiere in stile prog che Faust’o negli anni ripudierà, accusando la produzione di ingerenza. A guidare il disco, però, prima di tutto è la sua incredibile voce: un timbro assolutamente camaleontico, capace di passare con agilità dal falsetto a toni più cupi, dal declamare parole soavi a lanciare accuse e ingiurie nel giro di pochi secondi.

L’album prende l’abbrivio con un telefono squillante e i vagiti disperati di un bambino, interrotti dalla risata sadica di un uomo, che sembra farsi beffa delle future sofferenze della creatura appena nata. A questo incipit da musica concreta segue una digressione prog strumentale, utile per lanciare finalmente la title track. A dispetto del titolo, “Suicidio” non riguarda tuttavia – come sarebbe naturale evincere – la drammaticità di quel gesto estremo, ma è piuttosto un inno alla pura misantropia (“Lascia che la gente muoia/ non mi importa più di loro/ voglio solo riposare/ non buttarmi sulla strada, mai!”). Nel suicidio faustianonon c’è l’abulia di Mauro Pelosi, artefice di un brano omonimo nel 1972 nel suo disco eloquentemente intitolato “La stagione per morire”; nell’artista friulano è presente soltanto un’avversione patologica verso il genere umano, che non trova spazio per alcuna emozione al di fuori di un endemico fastidio (“non ho voglia di sentire quello che hanno da dire”). Perfino le disgrazie naturali, anche quelle del “suo” nativo Friuli colpito da un devastante terremoto proprio in quegli anni, vengono vissute come l’ennesima seccatura (“anche il terremoto adesso mi dà solo noia, noia, noia”). Il dover avere a che fare con la gente, per letizia o dolore, per Fausto Rossi è il vero “Suicidio”. A ricamare questa claustrofobica sensazione ci pensano il basso onnipresente di Stefano Cerri e la batteria di Mauro Spina (in seguito artefici dell’italo-disco dei Kano), la sezione ritmica perfetta nel suo dinamismo per dare sfogo ai veementi segmenti del pianoforte di Franco Graniero e agli assoli della chitarra suonata dallo stesso Alberto Radius.

Un altro ruolo fondamentale nel disco è quello ricoperto dal produttore-paroliere Oscar Avogadro, il quale con la sua penna firma la freudiana perversione di “Godi”, che sin dal titolo si scopre essere un invito irriverente a infrangere ogni veto bigotto e perbenista (“godi, però di nascosto/ nel cesso, nel bosco/ nell’ultimo posto in cui Dio ti vedrà”). Si tratta di una denuncia lacerante, che non conosce pudore né auto-censura, specialmente quando il dito è puntato verso la Chiesa cattolica (“ma non farti mai vedere dietro i banchi di una chiesa/ mentre ti masturbi in allegria”). Se la sfrontatezza del testo verrà in qualche modo ricalcata pochi mesi più tardi da Andrea Tich con “Masturbati” e da Andrea Liberovici nel suo disco omonimo, musicalmente è indubbio che un brano del genere abbia fatto scuola ai Decibel di “Contessa”, la quale presenta delle chiare analogie.

In un album contraddistinto da una certa discontinuità stilistica tra i brani, “Bastardi” rimane uno dei pezzi da evidenziare. Stavolta la sezione ritmica viene mutata e, al posto di Cerri e Spina, subentrano Louis Viviers (basso) e Lorenzo Pergolato (batteria): un cambiamento che si traduce in un’atmosfera più dadaista e sinistra, in pieno stile Chrome e Tuxedomoon. Ma proprio quando ti aspetti di avere capito la vera natura di Fausto Rossi, ecco che torna a rovesciare le carte in tavola giusto sul finire del primo lato: in “Piccolo Lord” si mette infatti a nudo, in un brano dai forti connotati autobiografici. L’alter-ego di Rossi viene incarnato da Harry, enfant prodige del pianoforte che viene costantemente esibito dalla madre mentre prende il tè con le amiche. Non sono tuttavia sguardi di ammirazione quelli dell’insolito pubblico quanto, piuttosto, quelli di “cento avvoltoi attenti all’errore”. A un certo punto, però, il ragazzino decide di opporsi facendo il pazzo sopra il pianoforte e mandando “i dolci biscottini tutti in frantumi”. Anziché adirarsi davanti alla sua ribellione, la madre sceglie la maschera dell’ipocrisia e continua la sua sceneggiata come se nulla stesse accadendo, invitando il figlio a suonare ancora Chopin. Il racconto si sviluppa in una suite teatrale e surreale divisa in più movimenti, dove la chitarra di Radius e il basso di Cerri si dividono la scena, con tanto di coro femminile che rimanda a certe atmosfere di Lucio Battisti, rivisitate causticamente in chiave vaudeville.

Il secondo lato ha il suo battesimo con “Eccolo qua”, sintesi atipica tra Rino Gaetano e gli Sparks, pop e glam-rock, mentre ne “Il mio sesso” il riferimento diretto è quello agli Ultravox, il cui testo di “My Sex” viene praticamente tradotto alla lettera sino a rasentare il plagio. Le allusioni sessuali continuano in seguito con “C’è un posto caldo”, storia dell’incontro angosciante di un bambino ormai adulto con l’uomo che lo aveva traumatizzato a scuola, facendosi sorprendere in atteggiamenti inappropriati. Nella seconda parte del pezzo viene svelata l’omosessualità latente del protagonista ed è interessante constatare la novità del tema, trattato in modo così esplicito forse solo da Alfredo Cohen nel decennio dei Settanta.
Nessun ritornello interrompe il dramma interiore del ragazzo, i cui pensieri vengono affidati a un falsetto capace di scolpire un amaro chiasmo con l’argomento delicato del testo. D’altronde, è lo stesso Faust’o a vivere di contrasti: troppo elegante e sofisticato per il mondo del punk con le sue pose ambigue ed ermetiche, in netto anticipo persino al movimento new romantic; eccessivamente sprezzante e audace per essere ingerito e metabolizzato dall’universo del cantautorato popolare.
I personaggi che porta nel suo teatro musicale sono come lui: non banali attori mono-espressivi, bensì uomini in carne e ossa che ti guardano in faccia, abili nel mettere in scena tutte le loro conflittualità e contraddizioni. Uomini che hanno in sé i loro “angeli drogati” da scuotere, per citare la canzone che i Massimo Volume dedicarono al buon Fausto. È questo anche il caso di “Innocenza”, brano che, a dispetto del titolo e della strumentazione classica adottata (mellotron, pianoforte, violino), cela una violenta storia d’amore tra due persone depresse e incapaci di comunicare.

A chiusura del disco, il singolo quasi proto-dark di “Benvenuti tra i rifiuti” si erge a inno globale rivolto verso tutti coloro che in quel periodo si sentivano emerginati, una sorta di canzone di protesta riportata alla contemporaneità. La coda strumentale – un tripudio di tastiere analogiche à-la Roxy Music – detta a tal proposito le coordinate per i riferimenti stilistici di Faust’o, che continuerà la sua trilogia alla maniera di Bowie con “Poco zucchero” (1979) e “J’accuse… amore mio” (1980). I fiori del male erano però già germogliati con “Suicidio”: il ragazzo dalle scarpe gialle aveva tracciato la strada con un album a tratti disorganico, ma capace di coniugare la new wave e la musica d’autore come nessuno prima di allora.

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