Fleet Foxes – Fleet Foxes

I Fleet Foxes si formarono nel 2006 per mano dei due chitarristi Robin Pecknold e Skyler Skjelset, entrambi provenienti dai sobborghi di Seattle, con in comune la grande passione per la buona vecchia musica trasmessa dai loro genitori: la madre di Skjelset era infatti un’appassionata di Bob Dylan e Hank Williams mentre il padre di Pecknold era un membro dei The Fathoms, un gruppo soul noto a livello locale. Inizialmente il duo scelse il nome di “Pineapple” ma poiché era già stato adottato da un’altra band del posto, Pecknold decise di mutarlo in “Fleet Foxes”, suggerendo che fosse riferito ad alcune “strane abitudini inglesi come la caccia alla volpe”. Inizialmente Pecknold si occupava dei testi ed era inoltre alla voce e alla seconda chitarra, mentre Skjelstet lavorava alla chitarra solista: il loro stile pop dal riverbero degli anni Sessanta attirò l’attenzione del produttore di Seattle Phomepage_large.1327b32chil Ek (già al lavoro con Modest Mouse e Built to Spill), che li aiutò a registrare il loro primo demo nel 2006, e, ascoltando Pecknold per la prima volta, osservò acuto che “era ovvio che il talento gli usciva persino dal culo”. Con la crescita di popolarità nei circuiti locali, alla band si unirono Craig Curran (basso), Casey Wescott (tastiere, mandolino) e Nicholas Peterson (batteria, percussioni) e nel 2007 la band così allargata iniziò a lavorare sul primo album, spaziando dal tempo in studio di registrazione al materiale registrato a casa: dato che con pochi fondi a disposizione dovettero contribuire anche alle spese, la maggior parte dei brani fu registrata negli appartamenti dei componenti della band e nello scantinato della casa dei genitori di Pecknold.

Invece di far rivivere una scena particolare o di ricreare un suono perduto, il quintetto di Seattle focalizza le loro idee in un ampio spettro di stili, avvalendosi del folk degli Appalachi, del rock e del country per creare una sintesi personale della propria musica; i Fleet Foxes sono un grande esempio di nostalgia degli anni Sessanta: durante l’ascolto di Fleet Foxes pare quasi di sentire i crepitii e gli schiocchi di un vecchio disco in vinile. Tra le fonti di ispirazione dichiarate vi è una amalgama di artisti della West Coast (Buffalo Springfield, Beach Boys con Brian Wilson, Crosby, Stills, Nash & Young), East Coast (Simon & Garfunkel) e folk-rock inglese (Pentangle, Fairport Convention), fusi insieme ad una grande sensibilità testuale, capace di coniugare efficacemente immagini di diversa natura (montagne, animali, famiglia, amici, avventura, la vita e la morte). Visto che Seattle è stata la culla della musica alternativa per quasi due decenni (Green River, Nirvana, Pearl Jam), questo disco si pone in netto contrasto con la scena locale, in una estetica studiatamente rurale che evita contaminazioni urbane: per il rilascio del disco nel 2008 dalla Sub Pop Records, la band scelse proprio un particolare dei “Proverbi fiamminghi” di Pieter Bruegel il Vecchio (1559), voluta secondo Robin Pecknold, perchè: “La prima volta che si vede questo dipinto sembra molto bucolico, ma quando lo si guarda più da vicino si capisce che qualcosa di davvero strano sta accadendo, come i tizi che defecano monete nel fiume, la gente in fiamme, alcuni uomini che scuoiano viva una pecora […]. C’è tutta questa roba davvero strana che accade. Mi è piaciuto il fatto che la prima impressione sia bella, ma poi ti rendi conto che la scena è dominata da questo assurdo caos. Mi piace il fatto che non si può davvero prendere per quello che è, che la prima impressione sia completamente sbagliata

E iniziamo subito ad addentrarci in questa atmosfera onirica con la prima traccia “Red Squirrel – Sun Rises“, che funge da prologo all’araldica “Sun It Rises“, in cui Robin Pecknold canta con tutta la solennità di un chierichetto, con la sua voce che si libra fino ad assestarsi nelle righe “The sun rising, dangling there golden and fair in the sky“; essa inizia con un breve introduzione a cappella per poi procedere con delle chitarre acustiche dolci e vivaci, e più parti armonizzate alla Beach Boys, come a rievocare la prima luce fioca dell’alba. White Winter Hymnal” mette in mostra la solare interazione vocale della band, con un testo che, al contrario, suggerisce immagini buie alla Edward Gorey: “I was following the pack, all swallowed in their coats with scarves of red tied ‘round their throats to keep their little heads from falling in the snow and I turned ‘round and there you go“. Il significato delle parole rimane arcano, ma la minaccia della favola passa a noi attraverso una sinistra evocazione cromatica, tra i battiti di Peterson e la complessità armoniche della band che dissipano le insidie senza diluire però il mistero, in un jangle-pop che fornisce un senso avventuroso e illusoriamente leggero.

Il rock affettuoso ed energico di “Ragged Wood”  passa dalla voce solista di Robin Pecknold alle armonie della band dopo ogni strofa, traducendo efficacemente un rock classico con elementi folk, con un tocco alla Fleetwood Mac nel finale travolgente. Tiger Mountain Peasant Song” presenta solo un duetto fra chitarre acustice e la voce solitaria di Pecknold, che passa ad un falsetto spettrale sul finale mostrando la sua abilità di narratore duttile. Dopo la parentesi psichedelicamente barocca di “Quiet Houses“, è il momento-clue della ballata sinfonica di “He Doesn’t Know Why“, rilasciata come singolo, accompagnata da un video ufficiale che mostra i membri della band con un gregge di capre, che cita la celebre copertina dell’album Pet Sounds dei Beach Boys.

La seguente “Heard Them Stirring” è priva di testo, ma è difficile definirla un pezzo strumentale quando è così sorprendentemente ricca e di ampio respiro, quasi quanto il quadro di Bruegel che abbellisce la copertina dell’album: le armonizzazioni sono in prima linea, la chitarra di Skyler Skjelset si aggira dove vuole, mentre il batterista Nicholas Peterson mantiene il flusso sotto controllo, consentendo alla band di muoversi liberamente, ma di non vagare troppo lontano nel bosco. Dopo Your Protector” (un brano irresistibile ornato con clavicembalo, organo ed una chitarra elettrica tremante) e lo spaccato mistico di Meadowlarks“, è il momento di attraversare le “Blue Ridge Mountains“: questa traccia si apre con delle chitarre acustiche pizzicate delicatamente, un tranquillo arrangiamento vocale che ricorda CSN&Y e gli interventi intermittenti del piano di Casey Wescott. Chiude il disco “Oliver James“, un’altra vetrina quasi a cappella per la voce solista di Pecknold, fino al coro urlato e disperato di “Oliver James, washed in the rain no longer“.

Prendendo in prestito alcune ricette dal folk rurale e dal rock classico (ed alcuni dei pezzi migliori di progressive rock lungo la strada), il debutto omonimo dei Fleet Foxes è stato – a ragione – osannato dalla critica di mezzo mondo: senza manierismi ma con molta spontaneità ed intelligenza, il quintetto di Seattle ha saputo sfruttare le loro conoscenze musicali per creare un album altamente espressivo e carismatico. 

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