Genesis – Nursery Cryme

L’epica storica dei Genesis ebbe inizio a Godalming, una piccola cittadina del Surrey inglese dove Tony Banks, Peter Gabriel, Mike Rutherford e Anthony Phillips frequentavano la “Charterhouse School” suonando in due piccole band locali; nello stesso college bazzicava nel frattempo anche Jonathan King, colui che nel 1967 suggerì il nome Genesis, procurando al gruppo, in qualità di manager, un prezioso contratto per la Decca. Nonostante esistesse già un’altra formazione americana con la stessa sigla, King adottò lo stratagemma di nasconderla all’interno del titolo nel disco di esordio From Genesis To Revelation, un pretenzioso concept-album sulla creazione, uscito a marzo del 1969 con una vendita di sole 650 copie, complice anche lo sfondo nero asettico senza presentazioni e la tendenza dei negozi di riporlo fra i dischi di stampo religioso.

La formazione nei primi anni si stabilizzó intorno al ieratico teatrante Peter Gabriel, con Jonathan Silver alla batteria, Anthony Philips alle chitarre, Tony Banks alle tastiere e Mike Rutherford al basso. Lasciata la Decca e lo stesso King, la band ingaggió in seguito il batterista John Mayhew e trovò un accordo col manager Tony Stratton-Smith, in procinto di varare la sua personale etichetta indipendente, la Charisma. Con il fiabesco Trespass, i Genesis trovarono finalmente la tanto ambita popolarità, spinti soprattutto dell’estro visionario che Peter Gabriel trasferì sul palcoscenico, con una scenografia concertistica che rivoluzionò completamente il modo di ascoltare la musica. 

Il secondo album che prendiamo qui in esame, Nursery Cryme, è il primo grande disco dei Genesis, che uscì fuori dalla gabbia dorata di Trespass grazie all’aggiunta di Phil Collins alla batteria e Steve Hackett alla chitarra, due personaggi carismatici che indubbiamente fecero cambiare pelle al suono della band, inserendosi in una formazione che si fisserà, di fatto, fino all’abbandono di Peter Gabriel nel 1975. 

Il titolo allude alle “nursery rhymes”, le filastrocche dell’infanzia tipiche della cultura anglosassone, e gioca proprio con l’assonanza di “rhyme” (rima) con “cryme” (crimine). Soggetto principale della copertina di Paul Whitehead è la favola nera vittoriana della prima traccia (“The Musical Box”) con la sorridente CynthiaGenesis-Nursery-Cryme in procinto di decapitare il piccolo Henry e che brandisce la mazza da croquet con la quale ha già giustiziato altri bambini (di cui vediamo le teste sparse al suolo); dietro alla ragazzina, una bambinaia accorre su dei strani pattini a rotelle brandendo un frustino, mentre il resto della scena raccoglie riferimenti ad altri brani dell’album: la pianta tossica dell’Heracleum Mantegazzianum, una statua di Afrodite (madre di Ermafrodito), un albero ed un vecchio, due vedove con un parroco e infine, in bilico su un cornicione, “Harold The Barrel“. Lo stile a pastello è intenzionalmente antiquato, con finte crepe nel colore e buffi errori prospettici; Paul Whitehead si firmò infine in un angolo, aggiungendo ironicamente un copyright retrodatato di un secolo (©1871): la favola idilliaca posta sulla copertina di Trespass e scalfita dal coltello, è qui ulteriormente vituperata dalla mazza di Cynthia Jane De Blaise-William.

La forbita The Musical Boxdalla sua apertura eterea al suo esplosivo epilogo, contiene tutti gli elementi formativi della quintessenza tragicomica dei Genesis: la chitarra parlante di Hackett, la voce malleabile di Gabriel, un egemonico Banks all’organo, un punitivo Rutherford al basso ed un abile Collins alla batteria, soprattutto nei piatti. In dieci minuti viene narrata la fiaba vittoriana anticipata dalla macabra copertina, riguardante due bambini piccoli (Cynthia e Henry) in una casa di campagna, toccando i temi della morte, della reincarnazione e della lussuria; ispirato da un vecchio demo di Anthony Phillips e Mike Rutherford del 1969 (“F. Sharp”), il pezzo è diventato uno dei più apprezzati del repertorio Genesis, un punto fermo delle loro esibizioni live per molti anni: mentre i minuti di apertura sembrano una continuazione raffinata delle parti migliori di Trespass, una volta che la canzone avanza si viene avvolti da un suono totalmente rivoluzionato ed avventuroso. Celebri i versi “play me old king cole“, da una filastrocca che risale addirittura al III secolo, con l’oscurità che ricopre la favola nera che permeerà l’intero lavoro, tra raffinata mitologia, rime infantili ed epica barocca. Non solo come percussionista, ma l’appena arrivato Phil Collins dimostra il suo ammirevole lavoro come vocalist sulla traccia successiva, For Absent Friends, dove canta offrendo una breve tregua nostalgica al dramma; anche nella sua esiguità questo brano è un ottimo esempio delle capacità empatiche che permettono ai Genesis di darsi una dimensione più terrena, in una ballata di transizione tra due tracce fosforescenti, con un testo intriso di religiosità oscura e dogmi contorti (“Inside the archway the priest greets them with a courteous nod. He’s close to God. Looking back at days of four instead of two. Years seem so few. Heads bent in prayer for friends not there”).

Nell’infestante “The Return of the Giant Hogweed siamo testimoni del grande affiatamento del gruppo, in un ritorno alla struttura propria della canzone della tassonomia Genesis, con delle piante predatrici bramose di sterminare la specie umana (Botanical creature stirs, seeking revenge. Royal beast did not forget. Soon they escaped, spreading their seed, preparing for an onslaught, threatening the human race”). Due chitarre soliste stritolano la canzone dai lati, mentre Gabriel canta al vetriolo ed il tintinnio morbido del pianoforte domina la struttura melodica in complicità con il basso. La conclusione è fragorosa, con un Gabriel appassionato e beffardo che proferisce avvertenze agghiaccianti come “Waste no time, They are approaching. Hurry now, we must protect ourselves and find some shelter, Strike by night, They are defenceless. They all need the sun to photosensitize their venom“. Una sequenza lirica si ripete ipnotica mentre la strumentazione spinge infine verso una rottura minatoria, con alcune complesse sezioni cristallizzate da un flauto magico, un nobile organo, un corrosivo fuzz del basso ed una chitarra sorprendente fratturata: la melodia assume così una patina oscura,  con il suono che diventa aggressivo e più intenso tra marce funebri e valzer da Music Hall. All’allerta musicale fa eco la cattiveria della carnivora Panace gigante, smaniosa di vendetta contro la razza umana: le immagini apocalittiche sono un foraggio ideale per Peter Gabriel per dimostrare le sue capacità teatrali.

La classicheggiante “Seven Stones“, brunita di una moralità imperturbabile, viene attraversata da una brezza sacra di mellotron a sussurrare la sua epopea. La timidezza del flauto di Gabriel trova il suo naturale agio verso metà canzone, raccogliendo insieme le note di un organo improvvisato e di un basso ciecamente percepito, misticamente gestito da Michael Rutherford: tutti gli strumenti sono qui manovrati per fornire la quantità solenne dell’intera visualizzazione compositiva. 

La vertiginosa “Harold the Barrel” coniuga umorismo nero e grande pathos, nel corso di tre minuti in cui la band sperimenta dieci diversi cambi di costume. La strumentazione qui si sta rapidamente distillando, con l’impazienza e la disperazione di una batteria che mantiene il ritmo, un pianoforte che colpisce incessantemente ed una chitarra che si presenta di sfuggita, il tutto mentre il povero Harold davanti alla folla sta per suicidarsi, interrotto dalla madre che gli suggerisce un cambio di camicia per la BBC.  
Il breve “Harlequin trova Gabriel e Collins armonizzare in modo molto significativo sopra ad una semplice melodia fondata su una sobria chitarra a dodici corde ed un telaio di tastiere che offrono una sensazione folk pastorale riconducibile al precedente album (“harlequin, harlequin, cancing round three children fill the glade, theirs was the laughter in the winding stream, and in between. From the flames in the firelight”). In “The Fountain of Salmacis” la band scava invece nel terreno fertile di ispirazione della mitologia greca, raccontando come, attraverso l’intervento divino, il semidio Ermafrodito e la ninfa Salmace siano stati uniti (“the two are now made one“), in una parabola ispirata alle celebri Metamorfosi di Ovidio che spiega così le origini dei bisessuati. Il testo è ancora pura poesia, mentre la musica, con un travolgente mellotron ed un basso percussivo, conferisce una sensazione opportunamente epica, con una forte introduzione simile a “Watcher of the Skies” dell’album a venire (Foxtrot). Una curiosità: la fontana di Salmace si trova nei pressi dell’antico Mausoleo di Alicarnasso, situato in quella che oggi si chiama Bodrum, in Turchia. Sebbene potabile, in epoca classica si pensava che avesse l’effetto di rendere gli uomini androgini, essendo stata maledetta da Ermafrodito.

Come in Trespass, anche qui vi è un forte connubio di elementi contrastanti ed ambigui. Provvidenzialmente, ogni strumento collassa in una valanga di emozioni, con una scarica di energia che può a malapena essere trasformata in parole: un disco significativo, al limite del capolavoro, ed un incentivo per tante generazioni future e per le band collaterali a venire. 

Precedente The Moody Blues - Days of Future Passed Successivo Opus Avantra - Introspezione (Opus Avantra - Donella Del Monaco)