Genesis – Trespass

Dopo un esordio poco significativo (From Genesis To Revelation, 1969), Trespass è il primo vero tassello verso la definizione di quel prog barocco che sarà l’inconfondibile marchio di fabbrica dei Genesis di Peter Gabriel; la formazione è qui per 3/5 quella classica: in questo album troviamo, oltre all’istrionico cantante, il bassista Mike Rutherford, il tastierista Tony Banks, il chitarrista Anthony Philips (poi sostituito da Steve Hackett) e il batterista John Mayhew (a cui subentrò Phil Collins).

Dopo avere abban7205867_origdonato la Decca, i Genesis trovarono un accordo con Tony Stratton-Smith e la sua neonata etichetta, la Charisma, rifugiarondosi in seguito in un cottage nella campagna inglese per comporre il secondo album, che verrà rilasciato nell’ottobre del 1970. La copertina è stata dipinta dal noto Paul Whitehead, che siglò anche le cover dei seguenti due album della band: a lavoro concluso, il gruppo aveva nel frattempo inserito nella tracklist “The Knife”  e, pensando che lo stato d’animo del disco sarebbe con questa traccia mutato, chiesero ad un riluttante Whitehead di tagliare la tela con un coltello vero; il tutto venne poi fotografato ed il riflesso blu dell’immagine fu causato dall’illuminazione della stanza al momento dello scatto.

L’inizio è in media res: “Looking for Someone” sorprende Peter Gabriel in un intro progressive tra i fumi di un organo, mentre il suo roco canto soul viene poi scortato dalle chitarra lamentosa di Anthony Phillips e dalla propulsione ritmica frenetica di Banks, Rutherford e Mayhew (che sarebbe stato licenziato dopo il completamento dell’album). Questa è una canzone-ponte dalle prime influenze della band al regime labirintico che segnerà il loro materiale per anni, sezionato da sonorità chirurgiche prog-medievali. L’uso della voce a cappella sarà un espediente poi riutilizzato su Selling England By The Pound, a gonfiare la melodia in una barocca teatralità (“Looking for someone, I guess I’m doing that, trying to find a memory in a dark room“). Gli ultimi due minuti del pezzo sono un capolavoro in termini di strumentalismo: sconnesse linee melodiche creano una dolce sensazione di attesa mentre la struttura lirica in tutta la composizione pare più concepita come una meditazione continua con una sottile dinamica, piuttosto che un “hit” in senso vero e proprio.

White Mountainè una canzone concettuale ispirata a Zanna Bianca di Jack London (Fang è proprio il nome del protagonista), che narra la parabola allegorica di un lupo solitario che ha sfidato le norme sacre della sua società, pagando un prezzo terribile per questa trasgressione. Credo che questo sia il brano da cui il titolo dell’album è stato dedotto, in quanto vi sono alcuni riferimenti al trasgredire (“outcast he trespassed where no wolf may tread“); interessante notare come il testo inizialmente connoti i personaggi come lupi, ma in seguito gli si conferiscano azioni prettamente umane (es. alzare lo scettro). La storia viene incorniciata da un ritmo frenetico che rende perfettamente l’inseguimento, mentre i  passaggi della chitarra a dodici corde rendono la melodia più pastorale. Gabriel qui comincia a sperimentare la modellazione della sua voce con un effetto raggelante (si ascolti quando recita “The laws of the brethren say this that only the king sees the crown of the gods“) ed il suo sibilo inquietante si combina ad un organo malinconico verso la fine. Da notare anche l’uso di mellotron e tastiere, in una canzone affascinante dal ritmo prog-latino, con qualche sprazzo di flauto condotto dallo stesso Gabriel.

Nella bucolica “Vision of Angels” vi è l’ombra dei King Crimson (una band fortemente ammirata da Gabriel) ma è un altro bel momento che fonde la musica della loro Genesi all’Apocalisse del nuovo stile. La combinazione di chitarra acustica e delle tastiere è veramente incantevole, con alcuni delicati gemiti di mellotron ed una sopraffine sezione centrale che lentamente conduce al culmine della traccia, in una ascesa corale che porta alle nuvole. Stagnation è invece la storia di un uomo che ha deciso di passare il resto della sua esistenza comodamente sistemato sottoterra. La voce lamentosa di Gabriel inaugura il brano, per poi avviarsi in un lungo tratto strumentale con un suono della tastiera che rasenta pericolosamente i Nice. La canzone si costruisce fino ad una conclusione travolgente, con Gabriel che indossa l’angoscia sulle sue corde vocali a mò di cravatta: la melodia si muove verso un crescendo con una accentuazione della chitarra acustica e delle tastiere, per poi fare spazio all’organo in arrangiamenti più complessi. Il brano si chiude con un bel flauto ed un lavoro corale simile alla traccia precedente.

Duskmostra il profilo folk dei Genesis, con Gabriel di nuovo alle prese con il senso della vita. Alcune armonie strane ricordano i primi Pink Floyd e i Moody Blues mentre il testo è stravagante come sempre; il brano meno lungo devo dire che risulta anche il meno convincente, ma dopo essere stati cullati dal suo lindore si viene improvvisamente scossi in vita con la celeberrima The Knife“: questa è la storia di un rivoluzionario in un viaggio di potere spinto da alcuni dei più arrabbiati vocalizzi di Gabriel, spalleggiato da un ringhiare di basso e chitarra ed una feroce sezione ritmica (la band voleva qualcosa che suscitasse l’emozione del “Rondò” dei Nice di Emerson). Nelle parole della canzone, Gabriel sostenne di essere stato influenzato da un libro su Gandhi e di avere voluto provare a mostrare come tutte le rivoluzioni violente inevitabilmente finiscono con un dittatore al potere. In 9 minuti sinistri, questo brano offre un complesso arrangiamento epico che sarebbe diventato di serie della band negli album futuri. Le sfumature dinamiche sono aumentate dalle liriche psicotiche (“Now in this ugly world it is time to destroy this evil” – “Stand up and fight for what you know you’re right; we’ll strike at the lies that spreaded like diseases though our minds“) ed è interessante notare come la religiosità pastorale della copertina dell’album (con la coppia che osserva l’orizzonte mentre un amorino balla allegramente in primo piano) venga scalfita dal coltello come una pugnalata al cuore – allo stesso modo ‘The Knife’ trafigge la conclusione dell’album, infiltrandosi violentemente nell’atmosfera idilliaca fin qui creata.

La grandezza dei Genesis doveva ancora venire, certo, ma questo Trespass è una ipercalorica fetta di prog precoce e “The Knife” ne è un assaggio, una delle esplosioni essenziali della creatività dell’epoca Gabriel. Il coltello scalfito sulla copertina indica che la band sta tagliando i legami con il mercantilismo discografico, affilando la lama fino a creare un sound inedito che sarebbe diventato il loro famigerato prog sinfonico.

Per le persone che sostengono che questo lavoro non è valido come Nursery Cryme o Foxtrot: dategli un po’ più di ascolto. In un certo senso sono d’accordo perchè i difetti paiono evidenti anche ad un orecchio inesperto; il problema di questo disco è duplice e concerne la composizione e la produzione: nelle prime cinque tracce non vi è quasi variazione ritmica e melodica (ed è uno dei motivi per cui “The Knife” domina facilmente la vetta) mentre la registrazione ha fornito un sound che pare quasi ovattato e compromesso, in particolar modo nel basso e nella batteria (che dà l’errata impressione di un Mayhew non all’altezza del compito prefissato).

Che dire? I Genesis nella loro genesi… L’inizio di una epica evangelica musicale destinata alla storia.

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