Gentle Giant – Acquiring the Taste

Se i Gentle Giant non ebbero mai successo – commerciale o critico – nel proprio Paese fu soprattutto a causa del loro modo di fare irriverente e provocatorio verso le istituzioni in generale, si veda ad esempio il disegno di copertina piuttosto diretto con una lingua che va dritta verso quello che per sineddoche visiva si presume essere un sedere, anche se una volta aperto completamente si rivela una pesca: fraintendimenti a parte, questo è un attacco diretto ai “baciapile” dell’industria discografica, accusati di non avere gusto – da qui anche il titolo3855490969_c1acf67664; prodotto da Tony Visconti (qui anche musicista), Acquiring the Taste venne rilasciato nel 1971 dalla Vertigo, reiventando il suono dei Gentle Giant nel giro di otto mesi dall’uscita dell’omonimo album di debutto, in una grande virata verso la sperimentazione, più ambiziosa che nel primo disco, esemplificata nelle note di copertina: “Il nostro obiettivo consiste nell’espandere le frontiere della pop music al rischio di renderla molto impopolare”. Il gruppo non lavorava più in equilibrio tra il prog pastorale ed il rock blues, anzi, stava proprio cercando uno squilibrio intenzionale nella propria musica, anche se si possono ancora sentire gli echi del blues nella chitarra di Gary Green e negli arrangiamenti di stampo classico.

L’elegante “Pantagruel’s Nativity” ha inizio con un ricamo di sintetizzatore Moon,  con una melodia che sarà in seguito ripresa dai sax e da una sezione ritmica ben diretta a fornire una sensazione di leggerezza. II testo è stato scritto in uno stile ispirato ai grandi oratori di Händel, narrando la storia di Gargantua e Pantagruel (due giganti – guarda caso) tratta dai cinque libri del monaco francescano Francois Rabelais, che sono stati vietati dalla Chiesa cattolica nel sedicesimo secolo perchè ritenuti poco morali (ed ancora oggi il termine “rabelaisiano” indica qualcosa che è satirico e osceno). Da segnalare alcune incredibili armonie vocali a sostegno della voce mistica di Kerry Minnear, così come alcuni lamenti del sassofono di Paul Cosh che trafiggono la melodia. 

Il mistero inquietante di Edge of Twilight” è pura musica d’avanguardia, con un richiamo a Canterbury nel cantato terzinato, in una resa straordinariamente atmosferica e foneticamente molto descrittiva, con una bella sezione percussiva centrale che lascia dietro di sé praticamente tutti gli elementi del rock; una voce tremante e strumenti luccicanti contribuiscono ad una sensazione malvagia senza spigoli, in cui Kerry Minnear probabilmente batte Mike Oldfield per il numero di strumenti interpretati in un’unica canzone, tra organo, clavicembalo e sintetizzatore moog, nonché una gran varietà di percussioni. La successiva The House, the Street, the Room” viene aperta con un eccellente linea di basso e dalla voce mentre la coda strumentale dopo i cinque minuti è molto interessante, basata sulle idee derivate dal serialismo alla Schoenberg. Come sempre, bisogna segnalare un tripudio di suoni tastieristici che però non incidono sul ruolo primario della chitarra blues di Gary Green: nel corso di crescendo strumentale frenetico, Paul Cosh fa la sua apparizione alla tromba, prima che Green tuoni con uno dei più belli assoli di chitarra di tutti i tempi, contorcendosi in un funambolico pezzo di rock sperimentale che anticipa alcuni elementi della trilogia sociale del disco successivo, Three Friends.
La title-track “Acquiring the Taste” è un breve tratto strumentale per accogliere la traccia successiva, continuando l’esplorazione al serialismo, ma preferendo tuttavia portarlo alla deriva verso il jazz. Wreck” ribadisce il polimorfismo dei Gentle Giants: cantata Derek Schulman, raggiunto magistralmente da Kerry Minnear nella parte centrale del brano, descrive la morte del­l’equipaggio di una barca e della sorte indecorosa che il mare riserva ai corpi di questo relitto, dalle cui onde emergono i suoni del violino, del mellotron e del clavinet con un forte retrogusto nautico (“Now all that remains is the deep cruel sea, hey, hold on. And wreckage of things that used to be, hey, hold on. No stone marks the place of that watery grave, cry, hey, hold on. Together they die both the weak and the brave, cry, hey, hold on“). Di particolare valore sbalorditivo è la rottura strumentale (con una splendida interazione tra clavicembalo e flauto, suonato da Tony Visconti), mentre la mia unica personale lamentela va alla dissolvenza conclusiva che manca d’immaginazione nel contesto di un album così bizzarro. 
La malinconica “The Moon Is Down“, cantata a due voci da Phil e Kerry, non è molto energica e al primo ascolto può apparire noiosa, ma poi il ritmo si infiamma: dopo una introduzione a sax, subentra un pesante clavicembalo che si smuove tra le parti vocali armonizzate, un preludio alla splendida parte strumentale che segue; una ca­ratteristica peculiare di questo pezzo è la frase d’esordio, che richiama parallelamente una strofa di “Edge of Twilight” (al con­trario proprio questo brano inizia ricalcando l’ar­monia di “The Moon is Down”). Fu Kerry Min­near a suggerire l’idea di aprire la traccia con un quartetto d’archi ed riutilizzarlo più volte du­rante il suo sviluppo; “Black Cat” continua questa sensazione di sospetto, principalmente alimentato dal violino di Ray Schulman e dalla chitarra di Gary Green mentre chiude il disco Plain Truth“, paradossalmente il pezzo più minimalista dell’album, con un pattern di pianoforte, chitarra, basso, batteria e voce tra maracas ed uno stridente violino elettrico, gestito superbamente da Ray Shulman, con la band che irrompe con furore in un coro esistenzialistica: “You stand and wonder, just let it warm your skin.Take all the living, live life and let it win, plain truth means nothing. Cry, laugh and cry again, you question answers. Born, live and die, Amen“.

Il duro lavoro in studio si tradusse in una splendida pagina della storia del progressive, dove le vibrazioni del blues e della musica classica dell’album precedente sono del tutto evaporate a favore di un magico intruglio di armonie jazz, folk e rock; i Gentle Giant con questo lavoro hanno pienamente sviluppato le loro autentiche armonie polifoniche con connessioni forti ai poeti trobadorici medievali e ai canti gregoriani, passando da sottolineature orchestrali con un largo uso di tastiere a intermezzi più jazz con il sax in evidenza, fino a paesaggi sonori folk con forte enfasi acustica. Intelligente abbastanza, la band non abbandonò mai le sue radici hard-rock e tutti i brani contengono delle impressionanti sezioni di batteria, pulsanti linee di basso e graffianti chitarre elettriche, accanto al suono più familiare dell’organo Hammond. Questo è stato un album scioccante, pieno di idee originali, strutture complesse e prestazioni sinistre, tutti insieme mescolati in arrangiamenti musicali incredibili per l’epoca: mentre l’album di debutto è stato concepito all’insegna di un progressive tinto di blues, Acquiring The Taste segna un punto di non ritorno verso i territori dell’avanguardia.

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