Gentle Giant – Gentle Giant

I Gentle Giant furono sicuramente una delle band più originali della scena progressive inglese, capaci di coniugare le sperimentazioni degli Henry Cow e la visionarietà dei King Crimson all’accessibilità barocca dei Genesis, il tutto con una versatilità tecnica sopraffine. Tutto ebbe inizio nel lontano 1966, con il beat psichedelico di Simon Duprèe & The Big Sound (celebre la hit “Kites), una pop-band di Portsmouth nella quale militavano i tre fratelli Shulman e a cui, per breve tempo, aderì anche un certo Reg Dwight (il futuro Elton John). Dopo un solo album, però, per contrasti interni con la EMI la band si sciolse; iI fratelli rimasero uniti e allo scadere del 1969 decisero di dare vita al Gigante Buono: a Phil (strumenti a fiato) Derek (basso e voce) e Raymond (violino, chitarra) si unirono Kerry Minnear alle tastiere, Gary Green alla chitarra e Martin Smith alla batteria, in un ensemble poliedrico dall’ enorme potenziale.Il disco di debutto omonimo esce nel 1970 per la Vertigo, con la produzione di

Tony Visconti e la celeberrima copertina, opera di George Underwood (già collaboratore di David Bowie e Procol Harum,  tanto per citarne alcuni) in cui l’intero spazio è occupato dal primo piano del rubizzo e ridente “Gentle Giant”.

E’ proprio con “Giant” che il Gigante Buono stringe la mano al pubblico e si presenta, in un prog sinfonico che funge da epitome alla filosofia della band; si inizia con l’organo ma poi la chitarra prende dittatorialmente potere e sembra voler accentuare la voce alla fine di ogni verso, (“See the Giant, feel the Giant, touch the Giant, hear the Giant!“) mentre la sezione centrale con i suoi arrangiamenti corali è semplicemente da brivido. La voce di Derek si adatta perfettamente allo stato d’animo di questo primo brano, dove in mezzo troviamo anche una sezione lenta, limitata alle percussioni, nonché un sottile spaccato di bassi prima di esplodere di nuovo in prossimità della conclusione.

Funny ways” è una composizione raffinata, tutta giocato sugli strumenti a corda: è appunto un violino sinuoso che guida il brano attraverso le parti di pianoforte nella sezione mediana. Suona vagamente kingcrimsoniana (“I talk to the wind”) ma è solo una parvenza, perchè qui è tutto più colorato. Degno di nota è anche il testo: se nella prima canzone il Gigante sembra verbalmente intenzionato a presentarsi con umiltà, in questo secondo brano pare voler far vanitosamente sfoggio delle sua bravura e della conturbata psicologia che si cela dietro ai suoi grandi occhi verdi: “my ways are strange, they’ll never change, they stay, strange ways. Go your own way or wait for me“. La vampiresca “Alucard (che nient’altro è che “Dracula” letto al contrario) è una pista dinamica con molti alti e bassi, diverse sezioni ed innumerevoli distorsioni che mettono a dura prova i padiglioni auricolari dell’ascoltatore. Quando le armonie dei tre fratelli Shulman si intromettono nell’ochestrazione, la melodia si fa ancora più sinistra, in un raccapricciante e bistorto elaborato in cui i punti più bassi vengono riempiti da tastiera, organo e ottoni, che ci fanno precipitare in un baratro oscuro in cui una sadico sax sembra volerci dare il colpo del KO. Questa traccia mi ricorda un po’ i Van Der Graaf Generator ma è tutto qui più palesemente hard rock fin dal principio, grazie anche ad una tuonante chitarra elettrica ed al diabolico sassofono di Phil Shulman. Allo scadere del pezzo, ogni membro del gruppo suona i propri strumenti separatamente in rapida successione: tra un uso sapiente della tecnologia e le grandi abilità tecniche, questa canzone contiene il meglio del repertorio dei Gentle Giant. Dopo il turbamento transilvanico, “Isn’t it quiet and cold” sembra rilassare i toni e farci riacquisire un po’ di colorito: con Phil Shulman eletto a voce principale, Claire Deniz ospite al violoncello, Kerry Minnear ai marimba e sprazzi conturbanti di vibrafono, questa canzone è davvero una parentesi interessante, eseguita con uno stile quasi “unplugged” e che alcuni critici bollarono come troppo beatlesiana (ma in realtà suona più stile Chordettes!). Niente di eccezionale, per carità, ma dopo che Dracula ci ha resi esangui, il nostro incarnato può ritornare alla sua cromia originale.

La titanica “Nothing at all è il pezzo più complesso, il biglietto da visita che il Gigante sfoggia orgogliosamente. Vi troviamo di tutto: una chimerica introduzione apparentemente delicata, uno sconcertante assolo di batteria, un pianoforte tra Franz Liszt e l’avanguardia jazz che sembra azzuffarsi con le percussioni, elaborate armonie vocali su uno sfondo di strumentalismo “Baroque and roll” (e qui capiamo perchè i Gentle Giant nel 1972 in tour coi Jethro Tull offuscarono l’attenzione dei più quotati colleghi!). Comincia come una semplice ballata a metà strada tra i Beatles (White Album) e i Camel, con la pacatezza di una chitarra a dodici corde per poi trasformarsi in un gigantesco mostro rock; la melodia scorre naturalmente e, a differenza di altri brani, questa pista ha un flusso continuo in cui la parte terminale chiude perfettamente il cerchio nel modo in cui era iniziata. Why not” continua idealmente il mood del precedente brano, iniziando con un canticchiare di tastiere per poi mettere in mostra l’inclinazione blues di Green, tra incantanti barlumi di flauto e medievali armonie vocali in chiave rock and roll. E il Gigante chiude infine gli occhi con “The Queen, una breve rivisitazione dell’inno britannico che suona, per dirla proprio all’inglese, come un classico brano “filler”, ed è indubbiamente l’elemento meno riuscito che chiude il disco in un maniera un po’ deludente.

Sicuramente non è il migliore album dei Gentle Giant, ma è un ottimo preludio ai capolavori successivi; vi è qui una buona dose di divertimento acustico, più rock n’roll e meno prog, mentre l’emisfero sinistro del cervello potrà dirsi certamente meno appagato rispetto ai seguenti Acquiring The Taste e Octopus. Ne rimane un signor esordio, in cui spicca un eclettismo insolito in un mix di blues, riff hard rock, ritmi semi-jazz, influenze di musica da camera medievali e opera classica, il tutto confezionato in una formula d’avanguardia con un livello di sofisficazione sconosciuto all’epoca, tenendo soprattutto presente che Gentle Giant è stato rilasciato solo nel 1970, anni prima di Aqualung e Selling England by the Pound

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