Green on Red – Gravity Talks

In una zona sospesa tra il folk e la psichedelia scopriamo oggi il microcosmo dei Green on Red, fra i pilastri della scena Paisley Underground assieme a Dream Syndicate, Rain Parade e Long Ryders. I Green on Red inziarono la loro carriera come The Serfers nel 1979 a Tucson (Arizona), quando Danny Stuart (chitarra, voce), Van Christian (batteria) e Jack Waterson (basso) si conobbero ad una festa, aggregando poco dopo alla formazione l‘organista Sean Nagore, destinato però ad essere sostituito dopo un paio di concerti da Chris Cacavas, un veterano di un combo punk chiamato The Pedestrians, che si unì alla band dando un il tocco melodico che mancava, forgiando una sorta di “art-punk” che porta alla memoria il caldo suono delle tastiere di Al Kooper e Ray Manzarek. L’estate del 1980 vide i The Serfers esibirsi come gruppo di apertura agli spettacoli dei Black Flag, dei Subhumans e degli X, tanto per fare alcuni nomi, ma la fortuna tardò ad arrivare e così la band decise di trasferirsi a Los Angeles, dove si ribattezzò in Green on Red (dal titolo di un loro brano precedentemente registrato per una compilation radiofonica); all’inizio c’erano dei momenti in cui erano talmente al verde che, a detta della formazione, “sarebbero usciti a rubare hamburger e fagioli“, ma dopo una fortunata serie di concerti nella scena postpunk californiana, il quartetto (ora con MacNicol, dalla band di Lydia Lunch, alla batteria e Van Cristian andato a formare i Naked Prey) conobbe un gruppo di musicisti coetanei, i Dream Syndicate, a cui si legarono in una grande amicizia, ed un vecchio amico da Tucson, Rich Hopkins, elargì alla band un prestito di 1200 dollari, destinato a coprgreenonred-gravitytalksire le spese per registrare un primo vinile auto-prodotto, limitato ad una tiratura di 500 copie e dal titolo 2 Bibles. L’etichetta Down There di Steve Wynn (Dream Syndicate) si offrì in seguito di fare registrare ai Green On Red un secondo LP omonimo, che uscì nel 1982, coniugando la solidità del garage rock alla fiorente scena neo-psichedelica di Los Angeles, un genere in seguito ribattezzato dalla critica come “Paisley Underground”; pochi mesi dopo, il terzo disco Gravity Talks vide la luce nell’autunno del 1983, confezionato nella bellissima foto di copertina di Jane O’Neil, sfoggiando al suo interno un suono più pulito rispetto all’esordio ed elaborandone maggiormente i temi melodici. 

Il disco si compone di una serie di canzoni di facile presa, ma assai variopinte: si inizia con la frizzantezza pop-rock di “Gravity Talks” dove si ha una prima conoscenza della voce di Dan Stuart, una voce che suona quasi familiare e che spesso ricorda quella di Tom Verlaine dei Television, specialmente quando emette lo stesso lamento incrinato nel raggiungere le note alte. Dalla rassegnata “Old Chief“, consolata dal basso di Jack Waterson, si passa poi direttamente alla doorsiana “5 Easy Pieces” che sembra letteralmente andare a fuoco attraverso il suono delle tastiere, e se “Deliverance” possiede ancora la sua stessa esile intensità, spavalda e docile allo stesso tempo, la ballata sincopata di Over My Head” pare per un momento spegnerne l’incendio nella sua cupa consapevolezza. Più in là, troviamo altre canzoni interessanti, come la velenosa “Snake Bit“, in cui spicca la partecipazione della chitarra al vetriolo di Matt Piucci dei Rain Parade, mentre la sospettosa “Alice“, l’allucinata “Blue Parade” e la magnetica “That’s What You’re Here For” si lasciano brevemente marinare nella stessa “brovada” di psichedelia, folk e garage rock. Chi lo saprà mai se invece fu pensata come una risposta alla “Blank Generation” di Richard Hell la seguente “Brave Generation“, che colpisce direttamente al cuore la politica di Reagan con dardi esplosivi di sarcasmo (“We’re not beat, we’re not hip, we’re the brave generation, what a trip!“) lasciando poi spazio ad uno dei momenti migliori del disco, l’incredibile riff rolling-stoniano di “Abigail’s Ghost“, che ribolle come un lento blues auto-combustivo, aprendo le porte all’alcolica poesia di “Cheap Wine” (di cui meritano una menzione speciale i versi “If I had a boat, man, I would sail away from this town to save my soul“) che è forse la cartina al tornasole del talento dei Green on Red, mentre la greve e cabalistica “Narcolepsy sigilla il disco con un bicchiere di whisky fra le dita ed i fumi di un bar notturno dove probabilmente sta sostando anche Neil Young, guardandoci di sbieco dal tavolino in fondo all’angolo. 

Tra letture pedisseque delle basi organistiche di Ray Manzarek, qualche tributo ai Byrds e timidi sguardi verso la scena garage-rock e quella punk (pochi, per la verità!), questo Gravity Talks si arricchisce di gustose soluzioni melodiche, che rendono il suo ascolto un piacevole viaggio nel tempo, possedendo una “stanchezza” di fondo ed una maturità testuale che smentiscono di fatto la sua appartenenza ad un genere piuttosto “fresco” e giovanile. Anche se non sono così taglienti come i Dream Syndicate, i Green on Red hanno saputo integrare molti dei loro sapori, prendendo la loro velata desolazione e trasformandola in una ruvida e sporca psichedelia, a tratti sognante ma spesso anche da incubo, un espediente che sarà meglio messo a punto in Gas Food Lodging (Enigma, 1985) grazie anche al contributo di un personaggio come Chuck Prophet.

Che altro dire? Un album da acquistare, prendere in prestito o… rubare, ma in quel caso non sono stata io a suggerirvelo!

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