Henry Cow – LegEnd

Tra i canterburiani d’adozione, gli Henry Cow sono stati la band più rivoluzionaria e alternativa di tutta la scena progressive inglese: originari di Cambridge, Fred Frith (chitarra, violino) e Tim Hodgkinson (fiati, tastiere) fondarono il gruppo, omaggiando nel nome il compositore americano Henry Cowell (maestro di John Cale e George Gerhswin) e combinando sin dall’inizio una forte consapevolezza politica, teatro di strada, sperimentalismo rock, colto jazz e spirito dada. Tra il 1969 ed il 1970 si unirono alla formazione Chris Cutler alla batteria, John Greaves al basso e Geoff Leigh ai fiati, assumendo una forma definitiva che sarà consacrata nel 1973 in un concerto di supporto a Mike Oldfield e alle sue Tubular Bells; fu proprio in questo periodo che Richard Branson decise di scritturarli per la Virgin, accogliendoli di fatto nel nucleo canterburiano. Legend (o Leg End) venne rilasciato nell’agosto del 1973 e venne ispirato, secondo Cutler, in primis da Frank Zappa, Captain Beefheart, Syd Barrett, Stockhausen, John Coltrane, Magma e Faust: fra i tanti nomi citati dal batterista non figurava curiosamente nessuna delle band “co-sanguigne” contemporaneev2005-henry-cow-front. Questo album è sempre vissuto nel dubbio della reale scrittura del titolo, volutamente ambiguo e ancora oggi irrisolto, mentre la rozza copertina con il calzino faceva quasi il verso alla fantomatica banana del debutto dei Velvet Underground: l‘opera è stata realizzata dall’artista Ray Smith e, nel caso l’omaggio a Warhol fosse sfuggito, i successivi album Unrest e In Praise Of Learning ne ricalcarono la serialità del progetto, emblema della società dei consumi; Smith era un vecchio amico della band dai tempi di Cambridge e aveva lavorato con loro su alcuni progetti di danza, sostenendoli spesso durante le loro performance: proprio dal disegnatore era scaturita l’idea della calza intrecciata e insistette inoltre perchè il nome della band non apparisse sulla copertina.

L’opener “Nirvana for Mice” è un pezzo astruso che suona ingannevolmente semplice: sotto il tema principale scorrono molteplici interazioni tra lo spaventoso basso di John Greaves e la batteria imprevedibile di Chris Cutler, in una raffica di solido jazz-rock che non sembra portare da nessuna parte, migrando con lo scorrere dei secondi verso ritmi sempre più sperimentali, fino alla sezione vocale completamente fuori-luogo ed una brusca interruzione finale La più sedata Amygdala” vede il dominio del flauto crimnsoniano di Leigh e della chitarra pungente di Frith, che colpiscono in modo mirato sugli accordi dell’organo di Hodgkinson, autore della composizione: si tratta uno dei migliori pezzi del progressive jazz-rock di sempre, dove ognuno dei componenti dimostra una notevole destrezza e creatività, in una strumentazione morbida fusa insieme dall’astuta sezione ritmica di John Greaves e Chris Cutler, con il supporto vischioso del sintetizzatore.

L’atonale “Teenbeat (Introduction)” è pura improvvisazione jazz che funge da introduzione alla traccia successiva: il genere di intermezzo che necessita di una decina di ascolti solo per capirci per sbaglio qualcosa; Teenbeat” tende a ricordare i primi Gentle Giant: essa inizia furente e caotica, con Frith ed il suo abbagliante violino che si innesta in una soffice coperta cacofonica, ma fortunatamente, l’introduzione lascia presto il posto a qualcosa di più strutturato e piacevole. La parentesi di Nirvana (Reprise)” serve solo a reiterare la suggestione mentale mentre la mistica “Extract from ‘With the Yellow Half-Moon and Blue Star” è un pezzo abbastanza singolare, che cavalca soprattutto il violino di Frith, ma passa attraverso diverse tematiche nel corso della sua breve durata; una chitarra aggressiva viene supportata in tutto il percorso da un flauto allarmante e qualche pianoforte mozzafiato, trovando spazio anche per una delle sezioni più ambient dell’album; la traccia è stata commissionata dal Cambridge Contemporary Dance Group di Liebe Klug, ed è stato chiamata come un dipinto di Paul Klee (“Avec la demi-lune jaune et L’Etoile Bleue”).

La musica si inceppa maggiormente con il brano successivo Teenbeat (Reprise)“, in cui la chitarra distorta ed un basso psicotico sono invischiati in una mischia musicale con una batteria selvaggia, mentre un pacifico pianoforte cerca di placare la rissa: eppure, c’è spazio anche per qualche armistizio, in momenti di quiete in cui si intravede un lucido jazz-rock. Devo dire che fino al primo minuto “The Tenth Chaffinch” è molto piacevole, ma poi diventa un po’ troppo strana per i miei canoni: ci sono alcune voci spettrali che permeano la sezione centrale, mentre le note scarabocchiate sul pianoforte contribuiscono a creare effetti sinistri assieme ad un ronzio di sottofondo che pare un Vocoder disturbato, mentre nel finale la musica sembra sotto l’incantesimo di una magia nera, tra tremolanti sassofoni e suoni incatalogabili, pericolosamente vicini alla “musica concreta”.

Dulcis in fundo, l’unica “vera” canzone, “Nine Funerals of the Citizen King“, che contiene tra le altre anche l’unico testo in tutto il disco, con un’atmosfera complessiva molto vicina alle opere soliste di Robert WyattCon il forte sostegno del violino e di uno stregante flauto, in qualche modo la parte vocale porta alla mente il dramma musicale di Bertold Brecht e Kurt Weill (autori che omaggeranno nei successivi lavori) cantata da tutta la banda in una inebriante armonia. Una curiosità: i versi trattano la storia della monarchia francese, alternandosi a riferimenti al movimento artistico Dada e alle prime dichiarazioni palesi delle idee marxiste della band; “The Citizen King” è Luigi Filippo I, re di Francia nei tumultuosi anni 1830-1848: all’inizio, fu amato e soprannominato “il Re Cittadino”, ma la sua popolarità ne risentì quando il suo governo si fece più conservatore e monarchico, con alcune scelte politiche che favorirono la ricca borghesia ed il divario tra i ceti sociali; il testo cita anche il poeta romantico e reazionario William Wordsworth, anche se non aveva nulla a che fare con i fatti storici in oggetto. Altri versi non sembrano essere correlati alla trama, contenendo una sequenza di riferimenti culturali casuali, legati soprattutto alla corrente artistica Dada fra citazioni a Lewis Carroll della sua poesia “La caccia allo Snark” (un non-sense precursore del movimento) mentre “Rose is a rose is a rose is a rose” è una citazione della “mama of Dada” Gertrude Stein da “Emily sacra”.

Se siete al primo ascolto, giunti alla fine avrete sicuramente un’espressione corrugata spalmata in faccia perché questo Legend è un lavoro che necessita di svariati giri, data la sua enorme sostanza; non penso inoltre che tutti i fan del progressive inglese apprezzino questa band, perché è davvero troppo singolare: quasi nulla di questo album suona familiare e confortante, eppure in qualche strano modo, possiede un suo fascino arcano.

Nel 1974, per Unrest la fagottista Lindsay Cooper dei Comus si unì agli Henry Cow, in un disco che per motivi tecnici alla fine risultò quasi come un “rock concreto”, molto più impegnativo di Legend. Negli anni successivi la formazione si agglomerò con quella anglo-tedesca degli Slapp Happy in Desperate Straights (1975) ed In Praise of Learning (1975), siglando di fatto il periodo più fertile della band, anche con alcuni concerti in Italia che lasceranno a lungo il segno. La nascita del movimento Rock in Opposition promossa da Cutler fece ancor di più traballare gli equilibri già fatiscenti tra gli Henry Cow e la Virgin, bramosa finalmente di liberarsi di uno scomodo gruppo apertamente socialista e anti-commerciale per scelta. Con la fine del 1978 avvenne la trasformazione degli Henry Cow negli Art Bears, con una serie di tre opere atte a descrivere l’incubo del Capitalismo, fino alla chiusura definitiva della band nel 1981 che si lanciò in diverse carriere soliste.

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