High Tide – Sea Shanties

Registrato agli Olympic Studios di Londra e rilasciato nel lontano 1969 dalla Vertigo, Sea Shanties è decisamente un album in netto anticipo sui suoi tempi. A confezionare quest’opera d’avanguardia è, non a caso, il mitologico Paul Whitehead con un disegno a china raffigurante la poppa di un vascello assalito da una moltitudine di mostri marini che ne ghermiscono lo scafo. Al suo interno, vi è l’immagine di una donna nuda in estasi con la bocca aperta, mentre a prua riceve le onde che si infrangono sulla nave, con la vela che reca su di sè la dicitura “PAX”.

Da questa “alta marea” mitologic4009910441428a, emerge una formazione abbastanza atipica: Tony Hill è il vocalist dal timbro morrisoniano con una chitarra dai suoni metallici e pesantemente distorti, che si contrappone e dialoga con il violino elettrico e psicotico di Simon House (futuro Hawkwind). A questi corre in aiuto un motore ritmico navale di rara potenza con il basso di Peter Pavli e la batteria di Roger Hadden.

Il low-fi di “Futilist’s Lament” presenta la fucina del suono High Tide: la voce di Tony Hill risulta da subito similare al baritono di Jim Morrison, mentre i riff metallici alla Black Sabbath e le esplosioni di wah wah ci ricordano che siamo allo scadere degli anni psichedelici ed il batterista Roger Hadden sembra completare il mach futuristico tra rock e jazz senza troppo sforzo. Death Warmed Up” illumina ulteriormente l’ottima intesa tra House e Hill, incrociando violenza espressiva e sperimentazione; si inizia con una chiara influenza di Zappa (di Hot Rats) che si trasforma ben presto in una jam con un pesante abuso di distorsioni: sono nove minuti di puro hard-rock, con una sfolgorante chitarra ed un violino furente che assassina l’atmosfera grunge per far posto ad un suono progressivo. Nella struttura cacofonica si intravede un tema principale serrato, una sezione solista, la ripetizione del leitmotiv e svariati assoli: su tutti si impongono ancora le schermaglie tra chitarra e violino, in cui i due strumenti sembrano cercare di superarsi a vicenda mentre un suono ritmico ipnotico di fondo devasta quel poco che si era riuscito a mettere in salvo. 
L’introspettiva “Pushed, But Not Forgotten” porta un po’ di sollievo dal massacro: iniziando come una canzone tipicamente Sixties per un minuto o poco più, si passa in seguito alla tempesta di inevitabili esplosioni di chitarra che si alternano a passaggi vocali morbidi e sezioni strumentali più veementi. La band rallenta solo impercettibilmente, prima di lanciarsi in una serie di belati chitarristici seguiti da un violino elastico e dalla voce cavernosa di Hill e, solo dopo svariati focolai, si deposita nuovamente in un clima mite, mentre in Walkin Down Their Outlook” il violino è nuovamente sul podio, con un tono leggermente folk ed il sostegno solidale della chitarra: questo è forse il brano migliore dell’album, in cui Hill grida alcune nenie da brividi su una sezione ritmica costante potenziata dalla tastiera.
Un altro cambiamento di rotta per le ultime due tracce, con l’introduzione di un elemento blues: “Missing Out” riporta alla mente qualcosa dei Cream in una pista più progressiva ed emotivamente sviluppata, un tentativo sfrontato di complessità e di torbida improvvisazione; l‘intro presenta ancora il binomio Hill-House: il violino è sempre presente e sembra afferrare per i capelli la chitarra e la voce estraniate di Tony Hill, fermato soltanto dall’intercedere del basso pacificatore di Peter Pavli. I testi sono difficili da decifrare (“Oh, my soul is going down, and I’m ready“) e avvolgono la traccia in una coperta enigmatica sporca. Nowhere” è, invece, un finale lievemente sottotono per un buon album, ma è comunque una traccia significativa, in cui il rimando vocale ai Doors è ancora più schiacciante. Una volta che l’esplosione di chitarra sotto effetto fuzz ha esaurito la sua carica, il pezzo sfocia in una ballata tentacolare che attraversa svariati sottogeneri, in grande anticipo sui sui tempi. Interessante infine il testo oscuro, che ben si amalgama all’ermeticità sonora: “marking time and shutting out each warming smile, what shall be the go between they laugh and cry, effigies of souls are seen to come and go, moving through the mists of fear, they come to know“.

Pesante come gli MC5 di Kick Out The Jams, ma con la sensibilità creativa delle migliori band psichedeliche del periodo (The United States of America su tutti) – spesso gli High Tide vengono descritti come gli “Iron Butterfly con Jim Morrison come frontman” o bollati frettolosamente nel “proto-metal”, descrizioni forse veritiere ma troppo superficiali, che non rendono onore a questa band avanguardistica: Sea Shanties è stato rilasciato nel 1969 (l’anno di Woodstock, se si vuole un raffronto stilistico) e mesi prima di In the Court of the Crimson King, che è dai più considerato come il primo album progressivo della storia.

Il batterista Roger Hadden, in analogia a Syd Barrett, è diventato anche lui vittima di una psiche fragile (e degli acidi!), trascorrendo 37 anni in un istituto di igiene mentale; dopo il secondo album omonimo (Liberty, 1970) il gruppo si sgretolò: il resto dei componenti h continuato in altri progetti, con il violinista House dapprima unitosi alla Third Ear Band, in seguito agli Hawkwind e poi alla band di David Bowie, mentre Hill e Pavli entrarono invece nei Rustic Hinge.

Chiudo con le parole di un uomo che mi è sempre stato antipatico, tale Lemmy Kilmister, ma che in questa sezione finale è utile al mio scopo: “Se vi sembra che il violino sia uno strumento solo per fighetti e signorine, allora non avete mai sentito Simon House! Suona come un diavolo!

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