Jethro Tull – Aqualung

It’s only the giving that makes you what you are: ovvero, decifrando la filosofia urbana andersoniana, è soltanto il donare a renderti ciò che sei. In questo senso, c’è da premettere che, a proposito di doni, questo creatura musicale ruberebbe il lavoro a Babbo Natale. Lasciando il vecchio canuto vestito di rosso sulla strada, senza lavoro e privo di soldi, magari su una panchina a osservare le ragazzine del parco accanto ad Aqualung, il clochard a cui è dedicato l’album e di cui si percorre il pensiero a suon di rantoli e flauti.

La formazione si stabilizzò nel 1967 per iniziativa del carismatico Ian Anderson, che riunì intorno a sè Mick Abrahams (chitarra), Clive Bunker (batteria) e Glenn Cornick (basso), scegliendo il nome di Jethro Tull da quello dell’agronomo inglese che inventò nel Settecento la seminatrice meccanica.

Aqualung è il disco della maturità per i Jethro Tull, rilasciato dalla Island nel 1971 dopo due album belli ma ancora acerbi: celebre la copertina, che riprende una foto scattata dalla consorte di Anderson con un mendicante in riva al Tamigi.

Guidati dal solito pifferaio, il disco può considerarsi il lavoro meglio riuscito della band, non soltanto perchè ne racchiude i più grandi successi, ma perché il gruppo i riesce finalmente a fare forma e sostanza ad un inedito progressive rock birichino ed insignito, segnando un Aqualung - Jethro Tullpunto di non ritorno per questi 5 ipnotizzatori inglesi.

L’album si apre con “Aqualung, la traccia di presentazione all’omonimo clochard (un pezzo scritto da Anderson e consorte) che apre le porte di casa all’hard-rock, dalle quali entrano spifferi di folk – probabilmente il cavallo di battaglia dei Jethro Tull, al trotto con una storia di vita controversa e asociale: Sun streaking cold an old man wandering lonely, taking time the only way he knows“. Da segnalare un duro e perfetto Martine Barre alla chitarra.

La struggente “Cross-eyed Mary” narra di una donna sgraziata e povera, costretta a prostituirsi per vivere (uno dei clienti è proprio Aqualung) – anche qui si sottolinea la solitudine di tale condizione sociale che diventa emblematica nel raccontare il ‘diverso’ dagli occhi della società. Tecnicamente, è evidente nella parte iniziale della canzone la supremazia di Anderson, per poi amalgamarsi un sound ben spartito.
Cheap day return” è un breve viaggio autobiografico in seconda classe su un vagone strumentale malinconico che si trova giustapposto a “Mother goose” (“mamma oca”), un dipinto acustico catturato da Anderson in una sua passeggiata, dai toni leggeri e sinuosi.
La soave “Wondering aloud” è la canzone più leggera dell’album, che prosegue la delicatezza acustica delle precedenti tracce focalizzando l’attenzione sul sentimento del’amore, inteso nella sua componente universale sotto l’ala del ‘donare’ incondizionatamente. “Up to me” spezza invece con una risata quest’atmosfera gracile fornendo uno scorcio di vita di strada, accompagnandoci nel viaggio con assoli a tratti istrionici e nomadi percussioni.

My God” rappresenta l’apice filosofico di Aqualung, in un connubio di irriverenza e una sinfonia schizofrenica che sfuma in tensione ed effetti gregoriani; l’accusa è contro la Chiesa Anglicana e la divinità preconfezionata che essa fornisce in “crocifissi di plastica”, mentre “Hymn 43” continua a secernere parole contro l’ipocrisia del perbenismo chierico che maschera più peccati che virtù. “Slipstream interrompe – momentanemente – il cerchio d’accusa, lasciando una fugace scia sul materialismo della società.
La trainante “Locomotive breath” è, a mio avviso, la migliore traccia dell’album – indimenticabile nei live, il respiro della locomotiva irradia ancora qualche residuo di imputazione religiosa, compagna di viaggio di Charlie (Charles Darwin?) l’uomo che ha tolto i freni al treno della vita: “the train won’t stop going, no way to slow down!“. Interessante la scelta dell’intro col piano di John Evan che lancia il treno il corsa e il disco alla storia del rock, ancor prima che “Wind Up” chiuda l’album con una delicatezza progressive senza addobbi baroccheggianti.

Well, you’d better lick your fingers clean, I thank you all for that”: è un disco difficile da descrivere, ma ve lo dicono pure i Jethro Tull: c’è da leccarsi le dita!

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