Jethro Tull – Stand Up

La storia dei Jethro Tull è strettamente legata a quella del suo istrionico cantante, Ian Anderson: in scena dal 1963 dapprima coi Blades, poi con i John Evan Smash nell’Inghilterra settentrionale, nel 1967 il folle flautista formò i Jethro Tull (dal nome dell’agronomo inglese che inventò la seminatrice meccanica) con il chitarrista Mick Abraham, il bassista Glenn Cornick ed il batterista Clive Bunker. Il gruppo fece subito scalpore per l’eccentricità del suo leader: barba e capelli incolti, scarpe da tennis rotte ed un flauto quasi strappato barbaramente dalle mani di Rahsaan Roland Kirk; con questa formazione i Jethro Tull entrarono subito in classifica con il primogenito This Was (Island, 1968), un album all’insegna del crossover tra blues, folk e jazz, rivisitati in modo molto personale. Alla fine dello stesso anno Mick Abraham andò a formare i Blodwyn Pig, lasciando il posto a Martin Barre, con cui nel luglio del 1969 la band rilasciò l’album Stand Up, nelle intenzioni più progressive e poliedrico del disco d’esordio, anche nell’aggiunta di inconsueti strumenti nell’universo del rock (mandolino, balalaika e bonghi in primis).

Il lavoro di design per questo hd_100047373_01album inizió con una visita a New Haven (Connecticut) durante un tour a febbraio del 1969: sotto la direzione del produttore Terry Ellis, la band incontrò un intagliatore ligneo di nome James Grashow, che seguì i Jethro Tull per una settimana al fine di poterli rappresentare graficamente; la copertina raffigura una xilografia di un disegno di Grashow, destinata originariamente ad essere aperta come un libro per bambini “pop-up”, in modo che la band potesse così virtualmente alzarsi in piedi, evocando così il titolo dell’album; qualcuno malignamente si è accorto che dalle mani intrecciate sulle ginocchia di Ian Anderson spunta da quella mancina un sesto mignolo: nessuna allusione criptica, quanto semmai un semplice errore del  grafico: d’altronde agli inizi della loro carriera i Jethro Tull dovettero abituarsi a convivere con questi refusi, se è vero ad esempio che il loro primo singolo fu addirittura editato a nome Jethro Toe e che il terzo recava la firma di un certo Ian Henderson!

La prima grande differenza tra il disco d’esordio ed il secondo album è indubbiamente l’abbandono di Mick Abrahams, che a causa di varie divergenze creative aveva lasciato il gruppo: dopo un breve periodo con il futuro Black Sabbath Tony Iommi, i Jethro Tull trovarono infine la propria pedina mancante nel formidabile Martin Barre, un chitarrista estremamente versatile, che avrebbe portato un inedito e stabile elemento hard rock all’interno bandLa seconda differenza, ancora più importante, è che in questo Stand Up anche Ian si era prepotentemente alzato in piedi, scoprendo che dentro di lui risiedeva un energico cantautore – e come corollario di questo, dopo il successo del disco il flautista assunse per sempre le redini del gruppo.

La distorta “A New Day Yesterday” apre le danze con un blues pesante, caratterizzato da chitarra, armonica e flauto che danno vita ad una atmosfera alla Cream che pare una sorta di sequel a This Was ma parallelamente allo scorrere della canzone vengono aggiunti nuovi sapori: l’accompagnamento del flauto, qualche buon riff di chitarra ed un basso totalmente aggressivo, mentre il testo sottolinea l’ironia di aver trovato finalmente il grande amore ma di doverlo prontamente già lasciare: “I had to leave today just when I thought I’d found you, it was a new day yesterday but it’s an old day now.” In “Jeffrey Goes To Leicester Square” entra in gioco anche il mandolino, dando alla canzone un taglio popolaresco in uno dei primi prog-folk della band: questo breve brano, tra chitarra elettrica ed effetti Leslie, suadenti flauti e piccoli tamburi, si riferisce a Jeffrey Hammond, amico di Anderson che, due anni più tardi, diverrà il secondo bassista della band (la stessa dedica venne offerta in “Song for Jeffrey” del precedente album).
La celebre “Bourée” è una prima commistione tra sacro e profano, fusi in una nuova versione della Suite per liuto n.1 BWV 996 di Bach: unico brano strumentale nell’album, esso è caratterizzato da superbi assoli di flauto ed un finale illusorio, con la canzone che rinasce negli ultimi secondi in una breve parte più avanguardistica.
La voce di Anderson si alza su “Back To The Family” più che altrove, ma per il resto si tratta di una canzone piuttosto dimenticabile nel vasto catalogo della band, anche se il lavoro di chitarra di Barre è abbastanza tagliente. La parabola testuale descrive l’allontanamento dalla città per scoprire la quiete inetta e noiosa della campagna (“doing nothing is bothering me“), con un conseguente ritorno all’ambiente urbano stressante (“I’ll get a train back to the city, that soft life is getting me down“) ed un paradossale rimorso della scelta finale quando il telefono continua a squillare ininterrottamente (“Everything I do is wrong: what the hell was I thinking?“).
La fragile “Look Into The Sun” porta ancora una sapore popolare, speziato dal flauto dolce e dalla chitarra acustica mentre Nothing Is Easy” col suo ritmo blues è più vicina ai primi atti psichedelici che al progressive; questo è anche il brano più lungo dell’album, dove Ian raccomanda la sua seratoninica musica come rimedio alla tristezza: “if you’re alone and you’re down to the bone just give us a play, you’ll smile in a while and discover that I’ll get you happy my way, nothing’s easy“. Degno di nota è il lavoro di Bunker che stabilisce inaspettatamente una potente sezione ritmica con Cornick, così da evidenziare egregiamente le parti soliste di Anderson e Barre.
L’esotica “Fat Man” è certamente diversa dalle altre tracce del disco, anche se la voce di Ian Anderson mantiene quella distintiva cadenza folk; il batterista Clive Bunker qui ben esibì la sua versatilità nello sviluppo del ritmo tramite i bonghi mentre un testo umoristico lavora brillantemente con le insolite scelte della strumentazione, che vede la band flirtare con vivaci sitar e motivi indiani.
La raffinata “We Used To Know” – che fornirà il giro di accordi per “Hotel California” degli Eagles – è un brano un po’ più cupo rispetto al resto dell’album, con Barre che pare far del suo meglio per imitare Eric Clapton, tra effetti wah-wah e meravigliosi assoli. La dolce Reasons For Waiting” è un’altra canzone morbida, ancora una volta senza grandi cose da annotare: l’orchestra aggiunge un tocco classico che concentra l’attenzione sulle arrangiamenti degli archi, dal momento che gli altri strumenti non si distinguono granchè.
La chiudifila “For A Thousand Mothers” viene punteggiata da feroci assoli del flauto di Anderson che sembra affrontare direttamente tutti quei detrattori che lo avevano insultato ed ostacolato agli inizi della sua carriera: “I’ll never be what I am, now telling me I’ll never find what I’ve already found, it was they who were wrong and for them here’s a song“. Essa possiede anche un falso finale subdolo che porta ad una breve ma furiosa ripresa.

Per Anderson Stand Up fu un disco debole nella musica e nei testi, ma ci permettiamo di dissentire: il 1969 è stato l’anno per eccellenza dei primi grandi atti progressive della storia, e questo disco non è da meno; Stand Up si compone di una formula potente di rock, folk, classica, jazz e blues: anche se non avevano quasi nulla in comune con la maestosità di Genesis, Emerson Lake & Palmer o Yes, i Jethro Tull furono in grado di sfornare una serie di album altrettanto affascinanti ma di certo più volgari e duri, paragonabili forse per suggestione alle band che sarebbero divenute popolari durante il periodo grunge degli anni Novanta. Quando si ascolta il gruppo di Anderson bisogna tenere a mente le loro radici blues e tutto il percorso che li ha portati al suono progressivo maturo di Thick As A Brick: tutti gli album prima di questo, compreso Stand Up, sono certamente più sperimentali e meno messi a fuoco.

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