John Mayall & The Bluesbreakers – Bare Wires

John Mayall è insieme ad Alexis Korner  il padre spirituale del revival blues britannico: tra il 1965 e il 1970 realizzò alcune opere di riferimento per questo genere, anche grazie alla scelta di notevoli collaboratori; i suoi Bluesbreakers furono una sorta di accademia del blues, dove si “diplomarono” diversi artisti di grande caratura come i chitarristi Peter Green, Mick Taylor ed Eric Clapton, i bassisti Jack Bruce e John McVie ed i batteristi Mick Fleetwood e Aynsley Dunbar, tutti insieme in tempi diversi, in una formazione che subì ben nove cambi di line-up tra il 1963 ed il 1967.

Agli inizi john_mayall_1968_bare_wiresdegli anni Sessanta, John Mayall si trasferì da Manchester a Londra su consiglio del maestro Alexis Korner, il più grande profeta del blues nel Regno Unito. Dopo aver formato i Blues Syndicate nel 1961, qualche anno dopo uscì con John Mayall plays John Mayall (Decca, 1965): quando la maggior parte delle blues-band suonavano soltanto cover, Mayall due anni dopo questo album diede vita ad una fucina del suono del tutto originale, i Bluesbreakers, aggregando a sè John McVie (basso), Roger Dean (chitarra) e Hugh Flint (batteria) ed inaugurando una sterminata sequenza di album che portano il suo nome. Da A Hard Road (1967) il gruppo cambiò significativamente volto con l’arrivo di due personaggi come Peter Green ed Aynsley Dunbar, che sostituirono Eric Clapton e Hughie Flint, destinati anche loro però ad andarsene poco dopo – il primo con i Fleetwood Mac, l’altro coi Retaliation.

Nel 1967 venne rilasciato anche Blues Alone, opera del tutto solista ad eccezione del lavoro di batteria, che fu affidato al grande Keef Hartley; lo stesso anno venne reclutato un diciannovenne Mick Taylor alla chitarra (che troverà maggior fama con i Rolling Stones, non molto tempo dopo) e venne inoltre aggiunta una sezione di fiati, con la band che si impegnò a pieno spirito con questo arsenale sonoro in un rilancio del blues di Chicago degli anni Cinquanta, ben visibile nell’album Crusade (Decca, 1967); dopo il relativo successo di questo disco, che è una sorta di omaggio ai suoi maestri, Bare Wires compie un significativo passo verso il cuore del progressive: pubblicato nel giugno del 1968 è – a mio avviso – probabilmente il culmine del lavoro di John Mayall.

Registrato negli studi Decca (a nord di Londra) nelle giornate del 3, 9, 24 e 30 aprile 1968, la formazione includeva, oltre al polistrumentista John Mayall (voce, armonica, chitarre, tastiere), anche Chris Mercer (sax baritono), Henry Lowther (corno, violino), Mick Taylor (chitarra), Dick Heckstall-Smith (sax soprano), Jon Hiseman (percussioni) e Tony Reeves (basso): proprio questi ultimi due fonderanno di lì a poco la progressive-band dei Colosseum, con Reeves che andò a collaborare anche con Sandy Denny, Dave Greenslade e John Martyn.

Bare Wires venne confezionato su una fotografia di Peter Smith (l’autore della più nota Valentyne Suite dei Colosseum), che viene perfezionata dal lavoro grafico dello stesso tuttofare John Mayall: in questo album si amplia il range strumentale del genere, includendo insoliti contributi di chitarra hawaiana, violino e clavicembalo, destrutturando le regole classiche del genere blues.

Il lato A del vinile originale è occupato dai 23 minuti della “Bare Wires Suite” (“Bare Wires“, “Where Did I Belong“, “I Started Walking“, “Open Up A New Door“, “Fire“, “I Know Now“, “Look In The Mirror“) che ingloba svariate influenze jazz su testi rigorosamente introspettivi, musica da camera, rhythm and blues, caotica psichedelia e momenti boogie-woogie, in sette parti legate tra loro forse con transizioni non proprio lisce, ma singolarmente di grande impatto.

Il lato B pare scollarsi di più: “I’m a Stranger” seppellisce ancora un lento blues sotto una badilata di jazz, mentre in “No Reply” Mick Taylor lavora sul pedale del wah-wah con lo stesso brio di Jimi Hendrix, sotto l’incantesimo dell’armonica di John Mayall, che in connubio con la sua voce ruvida scatena nella melodia una tempesta di sabbia country (“No reply I’ve rung your number day and night, wonder why nothing seems to come out right. No reply, wonder why I keep on trying to dial, signify that you care if I exist“). Il boogie di “Hartley Quits” pare quasi emergere dalla mite burrasca della traccia precedente, offrendo un momento di ballabile rock ‘n’ roll dedicato all’amico Keef Hartley (che lasció la band in quel periodo) prima della fatale “Killing Time“, in cui Mick Taylor soffia sulla pistola dell’assassino con un esplosivo assolo di chitarra, direttamente da un trasandato saloon western (“You must know the way I’m feeling, killing time is hard to bear“).

Le ultime due canzoni fanno girare ulteriormente la testa al blues, già abbastanza stremato: “She’s Too Young” si snoda tra un ritmo spigoloso di R&B e punture dolorose di sax, mentre la dolce “Sandy” viene decantata da una desertica slide-guitar e dalla voce graffiante di Mayall (“Oh, where is my Sandy? What does she do each day and night?“).

Non è sorprendente come dopo la decostruzione del blues perpetrata a mani nude su questo disco, John Mayall abbia abbandonato il nome di “Bluesbreakers”: pur rimanendo fedele al verbo del blues, Mayall non perse mai l’occasione di sperimentare, chiamando a sè grandi talenti e mai trincerandosi dietro ad un unico postulato, fino a rimanere progressivamente da solo. Gli altri due dischi che mi permetto di segnalare col blues hanno ancora poco da spartire: l’americano Blues From Laurel Canyon, l’ultimo disco per la Decca pubblicato a novembre del 1968, ed il primo per la Polydor, The Turning Point (1969), con un titolo che preannuncia da solo la netta svolta verso strade jazzate, che permeeranno i successivi capolavori di Mayall.

Che altro dire? Un grande disco: per gli amanti del blues, John Mayall è un nome da evidenziare fino a far sanguinare la pagina di giallo fosforescente.

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