Kalacakra – Crawling to Lhasa

Oggi parleremo brevemente di un disco tanto misconosciuto quanto interessante nel panorama Krautrock degli anni Settanta. Auto-prodotto da un duo auto-didatta formato da Claus Rauschenbach (voce, chitarre, congas, percussioni, armonica) e Heinz Martin (chitarre elettriche, flauto, pianoforte, vibrafono, violino, sintetizzatore), Crawling to Lhasa è l’unico album di questa band, nato nel loro appartamento in affitto a Duisburg ed ultimato in soli due giorni negli studi di Willy Neubauer a Düsseldorf.

Il nome propugnato dalla coppia si riferisce ad una delle principali divinità tantriche del buddhismo, Vajrayana (Kalachakra), la cui traduzione è “Ruota del tempo”. Nel 1972 venne rilasciato Crawling To Lhasa in sole 1000 copie numerate, con una copertina raffigurante un mandala su sfondo bianco che rappresenta proprio questa ruota, ma il Kalacakra Tantra è anche una forma complessa di meditazione esoterica, il cui flusso viene qui canalizzato in unaKalacakra-Crawling-to-Lhasa-Cover-Front serie di brani dedicati alle fasi lunari, agli incubi medievali ed alle danze dei nativi americani, mutati in un album in cui il folk ed il blues si ritrovano a dialogare con strani sproloqui orientali ed una psichedelia sordidamente lo-fi. La loro musica combina infatti varie influenze, strizzando l’occhio alla Third Ear Band ma anche ai Popol Vuh, prendendo inoltre molta della follia del duo Clark-Hutchinson.

Si inizia con la serpeggiante apocalisse di “Naerby Shiras“, un piccolo pezzo acustico, ripetitivo e sognante, dominato dai motivi delle chitarre e da alcune linee danzanti del flauto: nonostante la fragile apparenza, si tratta di un brano spaventoso sotto la sua superficie, farcito di drammaturgia e negromanzia, con un testo inerente la peste nera che colpì l’Europa nel Medioevo; tuttavia, il primo brano viene controbilanciato dall’umoristica Jaceline“, una ballata dall’espansione variabile, molto percussiva, con un sottobosco di voci e parole che vanno a frapporsi al dolce suono del violino e del vibrafono.
L’induzione ipnotica di “Raga No 11” viene poi dotata di un intenso canto, sempre in bilico tra raga-rock ed improvvisazione, con tanto di apparizione di un arcaico sintetizzatore Minimoog, molto raro a quel tempo in Europa. In seguito, dopo il folk bucolico di “September Fullmoon“, il blues prende uno strano odore con la danza indigena di Arapaho’s Circle Dance“, coi suoi ritmi circolari combinati all’armonica, mentre nella conclusiva Tante Olga” sembra quasi di sentire Captain Beefheart in una sorta di cosmica jam-session boogie senza fine. La temperatura di Planck viene facilmente raggiunta con le formule vocali, magiche e squilibrate, di Rauschenbach e con i riff nauseanti della chitarra elettrica di Martin, tramutando in musica il ciclico mandala di copertina.

Bisogna infine sottolineare come l’etichetta Garden of Delights abbia ristampato il disco in versione cd per lenire la curiosità di molti collezionisti, specialmente perchè questo album venne contraffatto almeno un paio di volte. Dopo la pubblicazione del disco, le date per promuovere Crawling to Llhasa furono piuttosto scarse e, conseguentemente, le vendite subirono la stessa cattiva sorte. Nonostante questi risultati, l’Accademia d’Arte di Dusseldorf offrì al duo la possibilità di partecipare ad un percorso espositivo che avrebbe interessato le città di Londra, Buenos Aires e la stessa Dusseldorf, ma in tutta risposta Claus Rauschenbach preferì andarsene in vacanza a Ibiza, chiudendo di fatto la Ruota del tempo e l’effimera storia dei Kalacakra.

Precedente Ardo Dombec - Ardo Dombec Successivo Kula Shaker - K