King Crimson – Larks’ Tongues in Aspic

Il quinto album in studio dei King Crimson uscì per la Island nel marzo 1973, segnando l’inizio di un nuovo corso che per leggiadria riportò proprio agli esordi cortesi di In the Court of the Crimson King, mandando in scena però una inedita ed affiatata formazione: accanto al Re Cremisi per eccellenza Robert Fripp alla chitarra, subentrarono il bassista John Wetton dai Family, il batterista Bill Bruford dagli Yes, il violinista di stampo classico David Cross, l’enigmatico percussionista Jamie Muir (già collaboratore di Derek Bailey) ed il paroliere Richard Palmer-James (membro fondatore dei Supertramp).

Il precedente Islands (dicembre 1971) chiuse malamente il primo capitolo della storia dei King Crimson: accusato dalla stampa di avere poca forza strumentale, questo album amplificò le tensioni all’interno del gruppo ed uno alla volta tutti i componenti se ne andarono dalla corte del Re Cremisi, compreso il trobadorico paroliere Pete Sinfield.

Inaugurando una nuocover_44361992009va era per la band, Larks’ Tongues in Aspic (“lingue di allodole in gelatina”) possiede un curioso titolo, ideato spontaneamente da Jamie Muir che, interpellato sulla natura della musica che stava suonando con i King Crimson, di gettò utilizzò questa espressione, volendo alludere a qualcosa di soffice ed etereo, immerso in un elemento denso e corposo: una sorta di unione mistica tra Yin e Yang che, secondo Fripp, simboleggiava efficacemente anche l’idea dell’incarnazione dell’anima e ben evocava il processo di registrazione della musica, catturando la meraviglia fugace del processo creativo di un gruppo; il medesimo concetto è, infine, incarnato dall’evocativa immagine di copertina in cui sole e luna si compenetrano in un’unica essenza: questa immagina estatica ripulisce il caos dei cambi di line-up degli album precedenti, con un approccio notevolmente diverso: attorno al nucleo solido di mellotron e chitarra, ruotano le novità del violino di David Cross e le percussioni pittoresche di Jamie Muir, che utilizzò attrezzi da cucina, pezzi di metallo e altre cose rimediate qua e là. Si differenzia anche stilisticamente dagli altri grandi album progressive dell’anno, in quanto c’è più avanguardia aggressiva che musica sinfonica: l’energico Bill Bruford ha trovato modo di emergere come un batterista più duro rispetto al lavoro svolto con gli Yes e, con il bassista e cantante John Wetton, formò una delle più pesanti sezioni ritmiche del Progressive Rock. David Cross era, d’altro canto, forse il musicista più convenzionale in questa formazione, con le sue influenze classiche che si infiltravano in un redivivo Robert Fripp, che qui finalmente iniziò a godere di più libertà d’improvvisazione.

La tintinnante “Larks’ Tongues In Aspic – Part One è probabilmente uno dei migliori brani strumentali dei King Crimson di sempre: l‘intro con le percussioni, il violino che costruisce sofficemente la melodia, i pesanti riff della chitarra, la sezione ritmica sempre solida, le celate voci spettrali nella seconda parte, il drammatico finale… Muir scelse il titolo di questo album con una metafora di come doveva suonare la loro musica ed infatti il percussionista domina gran parte di questa prima parte della title-track, in cui ha saputo mostrare il suo modo curioso di creare rumori percussivi casuali partendo da diversi strumenti, inusuali nel prototipo musicale dei precedenti King Crimson, in un mix sonoro tra Frank Zappa e musica fusion; proseguendo con alcune variazioni sull’idea di base, qualche formicolio percussivo ed il guscio del mellotron, a poco a poco vi è la costruzione di un paesaggio sonoro di idee fragranti ed esotiche, tra un violino tantrico, una chitarra che ringhia ed una combinazione di ritmi maniacali, in alcuni momenti che riportano alla mente “Sailor’s Tale”. Completamente progressive, senza cuciture o spaccature tra le sezioni morbide e forti, senza momenti di relax: soltanto idee musicali in forma pura, in un viaggio mistico disturbato dall’inizio alla fine.
Il tono malinconico di “Book Of Saturdays” ci presenta la voce morbida di Wetton: più personale ed emotiva di qualsiasi altra canzone della band, il testo di Palmer-James fornisce una nuova dimensione al paesaggio sonoro rarefatto dei King Crimson, anche se risulta lievemente fuori luogo tra le più rumorose epopee fonetiche del resto dell’album, ma ne rimane una breve e sinuosa ballata. La seguente Exiles” è, invece, posta in una tempesta dalla lenta dinamica, che poi esplode fragorosamente nella seconda parte. Il tono generale è suggestivo ed alienante, la chitarra solista è sublime, la batteria riporta al Bruford degli Yes, ed infine, con toni caldi ma laceri, Wetton smonta il nuovo suono facendo dimenticare Greg Lake. Un uso delicato ma potente del mellotron avvolge infine la canzone rendendola un punto culminante del disco, fino al divertente falso fade-out alla fine. Una curiosità: unica canzone sinfonica dell’album, alcuni sue parti vennero prese da un pezzo live chiamato “Travel Weary Capricorn”.

Il sarcastico “Easy Money” mirava superbamente ad essere il corrispondente di “21st Century Schizoid Man” su questo disco, ma questa canzone segue piuttosto delle brevi tangenti sonore per creare una struttura più attraente ed imprevedibile, dalla natura multiforme. Si inizia con un’apertura aspra con delle rullate sulla batteria, linee di basso martellanti, un lavoro di chitarra abrasivo ed una voce maestosa, ma ciò che rende questa canzone così unica è la combinazione sapiente di segmenti complessi con passaggi più morbidi come: “Your admirers on the street gotta hoot and stamp their feet in the heat from your physique as you twinkle by in moccasin sneakersIl gruppo snobba collettivamente le trappole del rock di fama, con una dentellatura strumentale che punge i magnati della casa discografica ed un John Wetton che sogghigna sornione: “And I thought my heart would break when you doubled up the stake with your fingers all a-shake, you could never tell a winner from a snake but you always make money, easy money“.

La folle improvvisazione collettiva di “The Talking Drum” incarna le nuove influenze esotiche, dovute in gran parte ai contributi di Muir: il violinista Cross guida il movimento di questa inquietante traccia che si evolve intorno ad improvvisazioni più sottili rispetto a quelle presenti in altri brani strumentali; in sette minuti vi è un forte accumulo: il basso di Wetton vola attorno all’assolo ipnotico di Cross mentre Fripp ne attutisce la caduta; più ritmica e meno diversificata – ma altrettanto potente – è la seconda parte dove la band è alle prese con tempi dispari, in un’esplorazione guidata da Jamie Muir e Bill Bruford che costruiscono la musica in un crescendo. Il fragore che chiude la canzone fu prodotto, infine, con delle trombette da bicicletta, private dell’impugnatura in gomma e suonate direttamente con la bocca.
La conclusiva “Larks’ Tongues In Aspic – Part Two” è la prova magistrale della direzione che stava prendendo la band: una traccia inarrestabile, spinta dai contorni netti che saranno il modello per Starless and Bible Black, Red e parenti lontani (da Discipline a, naturalmente, “Larks’ Tongues – Part Three” di Three of a Perfect Pair). Si tratta di un hard rock molto duro, confezionato in un proto-metal che anticipa i Deep Purple, con l’accento sui power chords ed i tempi dispari (11/8 il riff principale) che la stringono di lato in repentini mutamenti, con Muir che arriva a suonare delle lamiere, i frippertronics di Fripp che prendono forma ed il basso distorto di Wetton che spinge, intrappolato nella tempesta. In conclusione si arriva a percepire un certo panico strumentale, con la batteria in frantumi sopra il tema principale, mentre l’album giunge al suo termine tra alcune ultime grida che lasciano un finale aperto.

Dopo la registrazione dell’album la band si privò del genio estroso di Jamie Muir, che si ritirò in un monastero tibetano in Scozia per sette anni, salvo poi dedicarsi completamente alla pittura.

Così, gran parte della musica presentata in questo vinile vola sopra lo zeitgeist del progressive nel 1973: sono finiti i tempi del romanticismo gotico di In the Court of the Crimson King, o delle improvvisazioni stupefacenti di Islands, o dell’intelligenza consapevole di Lizard e dell’assurdità subacquea di In the Wake of Poseidon; ci troviamo di fronte a una delle composizioni più inflessibili ed impietose del periodo, ma che in qualche arcano modo riesce ancora a sfruttare il jazz, la classica, il blues, la musica concreta, il gamelan e l’hard-rock, anche nel mezzo di continue inversioni a U che puzzano di gomma bruciata, di quartetti per archi di Bela Bartok o di balletti di Stravinskij. Questo è forse uno dei dischi rock più importanti di tutti i tempi, che eguaglia In The Court Of The Crimson King in termini di innovazione, audacia ed influenza.

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