Kula Shaker – K

I Kula Shaker sono la creatura musicale del caleidoscopico cantante e chitarrista Crispian Mills, figlio dell’attrice Hayley Mills e del regista Roy Boulting, nonché nipote dell’attore sir John Mills. Tuttò iniziò nel 1988, quando Mills incontrò il bassista Alonza Bevan al College di Richmon upon Thames, nel sud-ovest della capitale inglese: proprio in quegli anni, i due imbastirono una band dal nome Objects of Desire, completata poi da Markus French (batteria), Leigh Morris (chitarra ritmica) e Marcus Maclaine (voce). La vita di questo gruppo durò senza fortune però appena cinque anni, tanto che nel 1993 Crispian Mills decise di intraprendere un viaggio in India, una terra dalla quale restò profondamente colpito e la cui cultura inciderà per l’intero la sua successiva carriera artistica. Appena rientrato in Inghilterra, l’instancabile Mills diede così vita ai The Kays, per i quali ingaggiò ancora il fido Bevan (basso, tabla), Paul Winter-Hart (batteria) ed il cugino Saul Dismont (voce). Quest’ultimo resterà ben poco nella band: dopo circa un anno subentrò infatti l’organista Jay Darlington e Mills decise di assumere le redini vocali della band. Nel 1995, al culmine di un percorso coerente con le sue ideologie, Mills decise infine di cambiare la sigla del gruppo in Kula Shaker, omaggiando il santone indiano King Kulashekhara.

61jQ5zuUMGLLa musica dei Kula Shaker è riassumibile in una potente miscela di rock psichedelico, britpop e misticismo indiano. Si tratta di una band interessante, che flirta con le armonie dei Beatles, la spazialità cosmica dei primi Pink Floyd, l’ironia di Canterbury e la psichedelia dei Grateful Dead, tra ballate vellutate e atmosfere allucinate, scosse da mantra indiani e leggende arturiane, nel mezzo di uccelli che cinguettano, effetti del nastro ed altre transizioni senza soluzione di continuità. La copertina, disegnata dal fumettista Dave Gibbons, ben esemplifica la natura eclettica e sfaccettata dei Kula Shaker ed è costituita da varie immagini sovrapposte, relative alla lettera K che intitola il disco, tra cui: John F. Kennedy, Lord Kitchener, Karl Marx, Gene Kelly, Katharine Hepburn, Kareem Abdul-Jabbar, Danny Kaye, Kal-El (Superman), Boris Karloff, Krishna, King Kong, Martin Luther King, il Kaiser, Nikita Kruscev, Grace Kelly e Rudyard Kipling.

Il disco prende vita con la roboante “Hey Dude“, una traccia che potrebbe aver avuto origine dai sogni in acido dei Grateful Dead, tuttavia la sua carica psichedelica viene messa a terra nel rock dai potenti riff della chitarra di Mills, gli stessi che scherniscono poi la sagra stroboscopica di Knight on the Town“, nonostante alcuni lievi toni indiani si annidino qui, per la prima volta in questo K. Eppure in queste prime due tracce vi è soprattutto un rock crudo e grezzo, ancora privo delle contaminazioni mistiche della musica indiana, scosso da scenari urbani alienanti e spersonalizzanti. La presa di coscienza arriva però con la più marcatamente psichedelica ed orientale “Temple of Everlasting Light“, anche se con molti disturbi bipolari progressivi nel mezzo, ma è con Govinda” che entriamo finalmente nel tempio della musica tradizionale indiana e che la necessità del cambiamento e di evasione si palesa a pieno titolo. Nata da un’improvvisazione sulla base di una preghiera indù a Krishna, si tratta dell‘unica canzone entrata nelle top-ten inglesi ad essere stata cantata interamente in sanscrito, eppure è molto accattivante e certamente rock nella seconda metà, a dimostrazione del fatto che due stili antitetici possono compenetrarsi e mescolarsi per creare qualcosa di nuovo.

Con “Smart Dogs” torniamo indietro nei sentieri più propri del rock, anche se la melodia vocale mantiene ancora un retrogusto indiano. Più flebile Magic Theatre“, ma bisogna dire che essa rovina un po’ l’umore istituito dai brani precedenti, rovesciata poi dalla carnale “Into The Deep“, che crea un’atmosfera forse troppo simile agli Stone Roses di “Bye Bye Badman”, mentre successivamente “Sleeping Jiva” ribalta ancora le carte in tavola, in un brano omeostatico puramente strumentale, composto dagli strumenti della tradizione indiana e dominato dal sitar. Un po’ meno accattivante di “Govinda”, ma sempre un grande successo di classifica, “Tattva” (termine sanscrita che significa “principio” o “verità”) si fa poi strada con alcune sezioni corali in inglese, ma l’atmosfera visualizzata è ancora fortemente radicata nel Mandir.

La duplice “Grateful When You’re Dead/Jerry Was There” è poi un omaggio – direi anche palese – ai Grateful Dead di Jerry Garcia (morto nel 1995, un anno prima dell’uscita del disco): condotto dai riff di chitarra, questo panegirico psichedelico si caratterizza per una forte performance vocale ed un accattivante coro; purtroppo, la seconda metà è l’opposto della prima, più lenta e meno eccitante, il che è un peccato perché la prima parte di questo combo è davvero interessante. Gli ultimi tre brani sono, infine, i più convenzionali del repertorio e portano a compimento questo viaggio spirituale su disco: la vulcanica esplosione rock di “303“, la tabula rasa di “Start All Over” e la rivelazione definitiva delle due catartiche parti di “Hollow Man“.

K è essenzialmente un’eresia nell’ortodossia del britpop, un album che ha offerto una soluzione potenzialmente interessante per un genere che era stato spesso a corto di idee. Tra un disco degli Oasis ed uno dei Blur, i Kula Shaker sembravano incarnare una interessante novità. Nelle loro canzoni si rintraccia la psichedelia inglese ed americana di fine Sessanta, ma anche quella dei primi Verve, oltre agli inusuali riferimenti alla spiritualità ed alla cultura indiana. Al di là dei nomi dei brani (da “Govinda”, cantata in sanscrito, a “Tattva”), le influenze indiane risultano tuttavia inconsistenti e frutto probabilmente di una infatuazione post-adolescenziale, senza idee concrete. Non si tratta però un problema di originalità, quello dei Kula Shaker è stato fondamentalmente un problema di qualità: il loro esordio è senza dubbio il loro album migliore, in cui l’India incontra il britpop degli Oasis, affogandolo nella psichedelia sinfonica dei Verve. Mancano però le intuizioni melodiche dei primi e le capacità compositiva dei secondi ed infatti i Kula Shaker non ebbero fortuna particolare nei dischi successivi.

Precedente Kalacakra - Crawling to Lhasa Successivo Walpurgis - Queen of Saba