Leonard Cohen – You Want It Darker

Articolo tratto da Psycanprog

Il vecchio poeta ebreo è tornato ai suoi trucchi: ci ha lasciati il 7 novembre, anche se fino al 10 nulla è trapelato. Neanche la causa della sua morte. Perfino nella sua scomparsa Leonard Cohen è stato capace di essere un vero esempio di eleganza morale. Lui, sempre reticente nel parlare, tanto da prendere il nome di Jikan (il silenzioso) come monaco Zen. Lui, che quando si esprimeva metteva con gentile autorevolezza a tacere un po’ tutti. Come quando al Festival di Wight del 1970 veniva svegliato alle 2 di notte mentre si trovava nella sua roulotte e saliva sul palco per intonare “Suzanne”, calmando le 600.000 anime presenti e invitandoli ad accendere un fiammifero per illuminare la notte. O come, solo poche settimane prima della morte, si esponeva per difendere la legittimità del controverso Nobel a Bob Dylan, sostenendo semplicemente che era “come aver dato al monte Everest una medaglia per la montagna più alta del mondo”.

Nella sua lunga carriera Leonard Cohen è stato etichettato con tantissimi epiteti: “il poeta laureato in pessimismo“, “il droghiere della disperazione”, “il padrino della depressione”. Eppure, nonostante queste definizioni poco lusinghiere, con la sua musica ha saputo regalare una gioia profonda a milioni di persone. Nato nel 1934 in una famiglia ebrea della classe media di Montreal, Cohen subisce ad appena nove anni la perdita del padre, un mercante del settore dell’abbigliamento. E’ proprio nel ricordo della figura paterna che nella sua vita riuscirà a sentirsi a proprio agio soltanto indossando un completo. E’ una morte che il bambino prende con una una sensibilità sorprendentemente adulta, consapevole già a quell’età della caducità della vita. Durante l’adolescenza, la madre ne coglie le potenzialità come scrittore e lo incoraggia a comporre poesie. La chitarra la toccherà soltanto all’età di 13 anni per impressionare una ragazza, formando i Buckskin Boys. A 17 anni, si iscrive alla “McGill University” e si avvicina definitivamente alla musica grazie alla cantante e amica Judy Collins, che per prima ne interpreta alcune canzoni e lo esorta a suonare e cantare in pubblico. Comincia quindi a coltivare l’idea di fare il cantautore ispirandosi a Bob Dylan, che incontrerà di persona nel 1969. Prima di tutto questo, Leonard Cohen è un giovane poeta in cerca di sé. Dopo essersi trasferito a Londra grazie a una borsa di studio, nota un uomo sorridente e abbronzato in una banca, che gli riferisce di essere appena tornato dalla Grecia: Cohen decide pertanto che è quello il posto in cui vuole andare. Si trasferisce nell’isola di Hydra, dove inizia a scrivere quella splendida poesia in musica che è “Bird On a Wire”, mentre guarda gli uccelli appoggiarsi ai fili della rete telefonica. Proprio qui incontra Marianne (Ihlen), musa della canzone “So Long, Marianne”. Marianne era sposata con un famoso scrittore norvegese e aveva un figlio. Questo non ferma però i due dal divenire amici e poi amanti. Ironia del destino, Marianne è morta di leucemia il 28 luglio 2016, due giorni dopo aver letto la lettera scritta dal suo vecchio compagno: “Marianne, è venuto il tempo in cui si è vecchi e i nostri corpi cadono a pezzi, credo che ti seguirò presto. So di esserti così vicino che se tu allungassi la mano, potresti raggiungere la mia“.

Una vita scandita da amori carnali e cerebrali, quella di Cohen, se si pensa anche alla Suzanne (Verdal), che gli offriva “tè e arance dalla Cina”, ma con cui non ebbe mai una vera storia. Un amore puro, consumato solo nella fantasia di Cohen, impossibilitato dal toccare il suo “corpo perfetto”. Separatasi da poco dal marito, lo scultore Armand Vaillancourt, Suzanne Verdal viveva con la figlia a Montreal in una casa sul fiume Saint Lawrence e intratteneva con il cantautore profonde conversazioni sulla religione. Nel destino di Leonard c’era però un’altra Suzanne (Elrod), l’artista che diventerà la madre dei suoi due figli, Adam e Lorca. Una relazione, stando alla donna, complicata come una ragnatela e destinata anche questa a concludersi.

leonard_cohenA livello musicale, i primi brani di Cohen sono radicati nella musica popolare europea, in particolare francese (Jacques Brel, George Brassen). In un periodo in cui i poeti americani della Beat Generation volevano cambiare il mondo, lui, da perfetto canadese, capisce che può cambiare solo se stesso. Come Dante discende nei gironi dell’Inferno per poi trovare la Luce, Cohen affronta l’odio che ha attorno e lo fa con una grazia esemplare, come quando apprende di essere stato inserito nella black-list degli artisti “sgraditi” da Nixon e scrive “A Singer Must Die” (“sono io ad aver torto e voi ad avere ragione/ scusatemi se inquino l’aria con la mia canzone”). Riferirà a proposito di quel periodo: “Odiavo tutti ma agivo con generosità. Nessuno se ne è accorto“. Le sue canzoni parlano proprio di questo, della difficoltà di rimanere puri nei momenti difficili della vita. Parlano di contraddizioni che non si possono spezzare. Di una risata in chiesa durante un Hallelujah, la sua canzone più celebre, uno splendido inno di affermazione della vita che nelle corde e nel destino di Jeff Buckley è diventato, purtroppo, il più tragico dei poemi tanatologici.

Affascinato dalle regole, tanto da arruolarsi a Tel Aviv durante il conflitto israelo-palestinese che stava per sfociare nella guerra del Kippur, Cohen è sempre stato alla ricerca dell’ordine perfetto. In virtù di questo, quando incontra il monaco Roshi al matrimonio di un amico rimane folgorato dal suo carisma. La prima volta che va a trovarlo nel Monte Baldy, in California, non va però molto bene: Leonard scappa via, era pieno inverno. Tornerà alcuni mesi dopo con un clima più mite e ne nascerà l’amicizia di una vita. Nel 1993 si trasferisce definitivamente da lui e viene ordinato perfino monaco Zen. Cohen è tuttavia diviso in due, come le sue canzoni: pudico e irrequieto, la prima parte della sua vita l’ha vissuta nel segno degli eccessi e della droga, mentre nella seconda la ricerca spirituale lo ha portato a isolarsi per anni dal mondo, un’assenza terminata solo con il ritorno sulle scene nel 2001.

L’ultimo album dell’anacoreta canadese ci propone un titolo che è assieme una domanda e una sfida. Forse è entrambe le cose, conoscendo la dualità della poetica di Cohen. Rispetto ai dischi del recente passato, il cantautore ha cambiato il suo punto di vita. Non poteva essere altrimenti: il mondo stesso è oggi un posto diverso. Se prima di ritirarsi sui monti, Cohen cantava in “Anthem” che “c’è una crepa in ogni cosa, è da lì che viene la luce” (guardando a poeti come Federico Garcia Lorca e Jalaluddin Rumi), nel 2016 Cohen narra di fratture troppo grandi, di mutilazioni insanabili, di una umanità che arranca nelle tenebre. C’è un senso di profondo abbandono, che aleggia tra le righe delle nove canzoni che scandiscono il disco. Lo stesso Cohen lascia al produttore Patrick Leonard, al figlio Adam e alla collaboratrice Sharon Robinson l’incombenza di scrivere le musiche per gran parte dei pezzi. È stato proprio il figlio a convincerlo a tenere duro e fargli riprendere le sessioni tra “esilaranti discussioni esoteriche alimentate dalla marijuana terapeutica”. Una delle caratteristiche più evidenti è proprio la sua scelta di affiancare alle classiche coriste femminili – che sono state a lungo un leitmotiv della musica di Leonard -, anche le quindici voci maschili della sua sinagoga, la Shaar Hashomayim. Un cambiamento che ribalta inevitabilmente tutto il significato del disco, se si pensa alla connotazione salvifica della donna nella vita e nella poetica di Cohen, una figura quasi vicina alla Beatrice di Dante. Si tratta di una protezione che viene meno e che lascia spazio allo smarrimento, anche grazie alla saggia scelta del figlio Adam di optare per una strumentazione più minimale, in gran parte composta da pianoforte e archi.

Un disco di luci e ombre, morte e amore. Cohen si aggira per le stanze vuote, sistema la casa con sublime freddezza. Le voci funeree di “You Want It Darker” aprono l’album, poco prima che Leonard ci parli di politici opportunisti e necrofili al potere: “Se tu dai le carte io non starò al gioco/ se sei il guaritore significa che sono rotto e a pezzi/ Se la tua è gloria allora mia dev’essere la vergogna/ Tu vuoi più buio, noi spegniamo la fiamma“. E poi c’è quell’Hineni (“eccomi”) ripetuto in ebraico, che va dritto all’episodio del Sacrifico di Isacco, una delle prove di fede più crudeli e strazianti dei testi religiosi. Da una parte, la sofferenza di un padre che diventa dolore universale. Dall’altra, l’actus fidei di Cohen dinanzi all’Inevitabile (“sono pronto, mio Signore”). Immagini di morte esorcizzate nel Sublime, come nei dipinti di Caspar Friedrich. Leonard è sempre più consapevole di come il mondo di oggi sia mutato e di come solo l’Amore e la Bellezza possano salvare l’umanità dalla sua deriva; è questo il caso di “Treaty“, in cui trapela un grandissimo spirito di empatia (“Vorrei ci fosse un accordo che potessimo firmare/ non mi interessa chi prende questa dannata collina/ Sono sempre stanco e arrabbiato/ Vorrei ci fosse un accordo tra il tuo amore e il mio”). Un disco in cui l’amore assume quindi molteplici forme, anche quella di un sentimento platonico e mai consumato, come nel caso di “On Tthe Level” (“dovrebbero dare una medaglia al mio cuore per averti lasciata andare”); poi, l’amore senile e maturo di “Leaving the Table” (“Non ho bisogno di un’amante/ la belva abietta è domata”) e quello maieutico di “If I Didn’t Have Your Love” (“Ecco come mi sentirei annientato, come la mia vita mi apparirebbe/ se non avessi il tuo amore a renderla reale”).

Dopo una vita a cantare le donne, Cohen si gode l’ultimo viaggio in solitudine. Un addio al mondo fenomenico che oggi suona come un presagio nel lento flamenco di “Traveling Light” (“Sto viaggiando leggero, è un addio”) e nella rassegnatissima “It Seemed the Better Way” (“E’ meglio mordermi la lingua, è meglio stare al mio posto/ Solleva questo bicchiere di sangue/ prova a dire una preghiera di ringraziamento”). Il disco si conclude con due ultimi tristi arie klezmer sulla perdita dei valori: “Steer Your Way” (“Fatti strada oltre le rovine dell’Altare e del Centro Commerciale/ Fatti strada tra le favole della Creazione e della Caduta/ Fatti strada oltre le Regge che si innalzano sulla decomposizione”) e la coda finale di “String Reprise / Treaty“, con cui Cohen ci ricorda quanto “eravamo deboli allora ma ora siamo al limite”. E c’è un prezzo alto da pagare quando il violino smette di suonare, perché è arrivata l’ora della chiusura . Così – pressappoco – cantava Leonard Cohen in “Closing Time”. Lo scorso 17 ottobre aveva dichiarato durante un evento al consolato canadese che non era davvero “pronto a morire” come aveva invece riferito a David Remnick del “New Yorker”; tutt’altro: la sua intenzione era di vivere fino a 120 anni. Beh, noi siamo convinti che vivrai molto di più, Leonard.

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