Maxophone – Maxophone

I Maxophone nacquero ufficialmente a Milano nel 1973, quando al gruppo rock di Alberto Ravasini (voce, basso, chitarra acustica, flauto), Roberto Giuliani (chitarra elettrica, piano) e Sandro Lorenzetti (batteria) si unì un trio sonoro proveniente da un universo del tutto diverso: Sergio Lattuada (organo Hammond, piano elettrico), Maurizio Bianchini (corno, voce, percussioni) e Leonardo Schiavone (clarinetto, sax), tutti formati musicalmente al conservatorio e con la mania dei componimenti dell’illuminato Luigi Nono, piuttosto che del rock contemporaneo.

Dopo due anni passati a miscover_52141717102008chiare le loro carte, nel febbrario del 1975 i Maxophone entrarono negli studi milanesi della Ricordi con il produttore Alessandro Colombini e Gaetano Ria come tecnico del suono: il risultato è questo album omonimo, confezionato nella bella copertina di Cesare Monti e Wanda Spinelli sotto etichetta Produttori Associati, in cui le diverse anime convivono pacificamente in una musica di difficile etichettatura, con quattro cantanti che danno vita ad una insolita leggerezza del suono, fondendo nell’aria le influenze jazz e classiche in un modo molto personale e sincero, grazie anche agli ospiti Tiziana Botticini all’arpa, Paolo Rizzi al contrabbasso, Giovanna Correnti al violoncello, Eleonora De Rossi e Susanna Pedrazzini al violino. I testi dell’album non sono stati scritti dai membri della band, ma da alcuni amici che li aiutarono nel trasformare a parole quello che stavano cercando di esprimere con le loro note; il repertorio dei Maxophone si basa su un equilibrio sapiente di varie fonti confluenti: musica sinfonica, tradizione mediterranea, lussuoso ragtime, raffinatezza barocca ed audacia hard-rock, tutti miscelati in un calderone di magnificenza immacolata che viene rovesciato su un album in cui, tuttavia, c’è comunque spazio per irascibili assoli di clarinetto, flauti e sax, impetuosi accordi di pianoforte ed un ribelle vibrafono, che sconvolgono il pattern ritmico con scioltezza e padronanza assoluta del tempo. 

L’apriscatole di “C’è Un Paese Al Mondo” funge da appropriato brindisi al mondo musicale dei Maxophone, con una morbida apertura a pianoforte che si sposta presto nel rock della chitarra elettrica, in una dissolvenza con basso e batteria che prepara l’ascoltatore alla voce ammaliante di Alberto Ravasini. In mezzo alla traccia c’è spazio per una tempesta di clarinetto, scatenata tra molti cambi di ritmo che disegnano freneticamente le immagini di “un paese al mondo dove crepi e ci bevi su e nessuno piange, anche il prete non finge più“,”che misura un’enormità, alto, lungo, largo, senza ladri di verità,cresce nella mente su radici di parità: c’è un paese al mondo dove danza la libertà“. La musica in tutta la sua durata continua ad oscillare dalla classica al rock, da momenti swing a passi di valzer, fra citazioni recondite di Bela Bartok e l’utopia del jazz quando il flauto prende prepotentemente il comando. La seguente traccia è la più lunatica “Fase“, un pezzo strumentale dalla linea forte e potente, con un intro di chitarra scaraventato in seguito via dal sax tenore, un abbagliante basso ed un meraviglioso vibrafono, che si infila tra i suoni della tastiera con fastosi abbellimenti jazz. 

La poetica “Al Mancato Compleanno Di Una Farfalla” ricorda vagamente nella sue note iniziali la “River of Life” della PFM, e stabilisce una tantrica unione tra la musicalità barocca ed il sinfonismo pop, in una coesione compatta che cattura ogni ascoltatore, fino al canto a cappella su un leggero flauto (“E la farfalla va, splende di libertà, ondeggia e va. Fra un anno cosa resterà dei colori che ha, li avrà donati ad altre che voleranno per lei“) destinato a confluire poi in una seconda parte più muscolosa. Un pesante organo ed una voce gutturale abbozzano poi l’immagine disperata di un attacco in strada che introduce “Elzeviro“, uno dei migliori momenti del disco che evoca l’atmosfera plumbea della politica in Italia durante gli anni Settanta e delle sue “lunghe ore, nere d’odio senza giustizia mai“, tra delicati momenti corali e istanze di pura forza. Il pezzo successivo torna allo stile più lucido della PFM, con il grande canto onirico di Mercanti Di Pazzie” preso dalla “Sonata per arpa” di Paul Hindemith, che viene otturata da una lirica estremamente ermetica (“Sete cembali caucciù anni luce uccelli blu, noi non moriremo mai, ci scommetto vedrai, il rumore delle stelle crescerà“). Serra le danze “Antiche Conclusioni Negre“, un altro brano meraviglioso, questa volta dominato da uno stile Chicago che va ad omaggiare la black music (jazz e gospel), nella musica ma anche nel testo: “Sì che ne ho poesia dentro me, sì che ne ha la mia donna dentro sè, quanta ne ha la mia padrona se lei mi vide nudo là, al mercato del cotone puntando il dito contro me“. 

Segnalo due bonus tracks del tutto fuori tono rispetto al resto del disco: il folk solido di “Il Fischio Del Vapore” e quello molle “Cono Di Gelato, due singoli con un tocco morbido di blues pubblicati nel 1977, poco prima che la band si sciogliesse proprio dopo un importante concerto negli studi RAI di Torino, a causa del fallimento della loro etichetta.

Maxophone rappresenta probabilmente uno degli album più “internazionali” all’interno del territorio italiano del periodo, inalando diverse correnti calde di Yes, Genesis, Camel e Focus che vengono poi espirate in maniera del tutto originale ed autentica.

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