Michael Chapman – Rainmaker

Uno degli artisti che ha trovato successo all’interno della Harvest è stato Michael Chapman, ex professore di arte e fotografia di Leeds, senza dubbio uno dei cantautori più interessanti ed autentici di tutti gli anni Sessanta. E pensare che lui a quella carriera musicale non ci pensava neanche per sbaglio, se non fosse stato per la spinta del celebre deejay John Peel e del chitarrista Davy Graham, che macchiò in qualche modo la musica di Micheal con l’esotismo dei suoi raga indiani. Registrato nell’ottobre del 1968, il debutto discografico di Chapman avvenne con Rainmaker, che tuttavia fu pubblicato – con la foto di copertina del celebre Jim Marshall – soltanto nel luglio del 1969, a causa dei ritardi in materia di altri rilasci dalla stessa etichetta: questo disco mescola con una certa abilità il rock psichedelico al folk cantautorale in un unico infuso portato a bollore da Gus Dudgeon (noto per il suo lavoro con Elton John, Ten Years After e David Bowie, solo per fare alcuni nomi) e aromatizzato da una line-up alquanto saporita, formata dal batterista Aynsley Dunbar (già collaboratore di Frank Zappa), i polistrumentisti Danny Thompson (Pentangle) e Rick Kemp (Steeleye Span), i MichaelChapman_Rainmaker_3252chitarristi Clem Clempson (Humble Pie) e Bert Jansch (Pentagle), il bassista Alex Dmochowski (Retaliation) ed il tastierista Norman Haines (Locomotive). In tutto questo, Chapman oscilla volubilmente nello spazio indefinito tra il folk tradizionale ed il rock elettrico, ma la sua musica è stata chiaramente influenzata anche da una serie di diversi artisti come Miles Davis e John Coltrane, oltre che dagli espressionisti astratti come Mark Rothko e Paul Klee e dagli autori del cinema francese della Nouvelle Vague. L’album si compone quindi di una serie di canzoni di spessore indubbiamente pop ma che si tingono di peculiari strumentazioni (chitarre elettriche, organo hammond e batteria in particolare), con alcuni testi capaci di coniugare una struggente poetica esistenzialista ad un umorismo tagliente.

L’album si apre con l’affilata It Didn’t Work Out“, una splendida ballata spezzata da un’inclinazione filosofica che offre un suono ricco grazie all’utilizzo di due bassi e due chitarre (acustiche ed elettriche), mentre l’organo di Norman Haines tesse la composizione riportando ogni filo al suo posto, in un crocevia di pop, folk e rock. Segue poi la title-track “Rainmaker“, un brano strumentale in cui l’intreccio tra l’elettricità ed il suono acustico cresce ancora più stretto, mentre You Say” rielabora il brano di Bob Dylan “Girl From The North Country” in maniera originale ma con qualche cadenza donovaniana, un’inflessione che continua anche nella strumentale Thank You PK 1944” (che deve al suo nome a Paul Klee – in realtà morto nel 1940!) ma che vede anche trasparire l’affinità di Micheal con il blues, mentre nel minaccioso folk di “No-One Left To CareChapman mastica crude le sue parole e le sputa fuori come fossero fuoco, accompagnato dalla sua chimerica chitarra a dodici corde. Passano in seguito senza infamia nè gloria Small Stones” e “Not So Much a Garden More Like a Maze“, entrambe utili trampolini di lancio al manifesto dichiarativo di Chapman che si pone in discussione già dal perentorio titolo “No Song to Sing“, un messaggio davvero insolito per un cantautore, che viene travasato in una canzone d’amore alquanto umorale (“Sunshine was the name that I gave her and she turned my winter into spring. She turned my summer into autumn and left me with no song to sing”). La successiva “One Time Thing” è un altro brano inquietante ma che rende comunque omaggio alla tradizione, mentre come fanalini di coda troviamo la strumentale “Sunday Morning” (che non ha nulla a che fare con quella paranoica dei Velvet Underground!) e l’incespicante “Goodbye to Monday Night” che porta un innegabile riverbero di Bob Dylan nella sezione vocale, ma che rimane un finale coerente per un album dai toni alquanto lunatici.

Il più grande successo di Micheal Chapman rimane indubbiamente Fully Qualified Survivor (Harvest, 1970), in cui l’artista venne sostenuto da Mick Ronson alla chitarra e dall’arrangiatore di Elton John, Paul Buckmaster, ma in realtà era soltanto il secondo mattone di una prolifica carriera, forse un po’ troppo nell’ombra e dimenticata, destinata comunque a durare fino ai giorni nostri… Direi niente male per uno che aveva iniziato con “nessuna canzone da cantare”!

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