Mike Bloomfield – Live at Bill Graham’s Fillmore West

Michael Bernard Bloomfield nacque il 28 luglio 1943 da una famiglia ebrea benestante di Chicago; sin dall’infanzia, si fece notare come un bambino timido e solitario, con un forte interesse musicale sviluppato attraverso l’ascolto delle stazioni radio del Sud, che gli fornirono un’ampia conoscenza del rockabilly, dell’R&B e del blues. Al suo bar mitzvah, Mike ricevette in dono la sua prima chitarra e con gli amici si trovò così a bazzicare per i club neri della città, tendendo spesso a salire insolentemente sul palco per suonare coi musicisti. Costernata per la svolta che la sua formazione stava prendendo, nel 1958  la sua famiglia lo spedì in una scuola privata sulla costa orientale, dove alla fine Bloomfield si laureò: a questo punto, il giovane Mike aveva abbracciato completamente la sottocultura beatnik, frequentando i punti di ritrovo vicini all’Università di Chicago e suonando la chitarra come session-man per diverse band locali. 

Nel 1964, Bloomfield venne scoperto dal leggendario John Hammond, che lo fece firmare per la CBS, nonostante l’etichetta non era ancora convinta di voler commercializzare un bianco chitarrista di blues; nei primi mesi del 1965, si unì alla Paul Butterfield Blues Band, debuttando nello stesso anno per la Elektra ed introducendo al pubblico bianco una versione meno annacquata del blues: Mike venne qui largamente acclamando il suo lavoro alla chitarra solista, come un ponte perfettamente logico fra il blues di Chicago ed il rock contemporaneo. Più tardi, nel 1965, Bloomfield fu reclutato per la nuova band di supporto a Bob Dylan e fu una presenza di primo piano nel rivoluzionario Highway 61 Revisited; nel frattempo, stava anche sviluppando un forte interesse per la musica orientale, in particolare per la forma del raga indiano, esercitando così una grande influenza sul successivo album di Paul Butterfield (Est-Ovest, 1966), guidato dai suoi sbalorditivi assoli in una fusione di blues, jazz, world music e rock psichedelico senza precedenti. Nel 1967, Bloomfield lasciò il gruppo per portare avanti i suoi progetti, formando una nuova band chiamata The Electric Flag con Nick Gravenites alla voce: questa formazione intendeva basarsi su una estesa sezione di fiati, che permise difatti a questo insolito ensemble di aggiungere la musica soul alla lista delle loro influenze; i The Electric Flag debuttarono ufficialmente nel 1967 al Monterey Pop Festival e con l’album A Long Time Comin’ nel 1968, un disco tuttavia abbastanza disomogeneo che disintegrò la band tra le rivalità interne ed il crescente abuso di eroina. Mike Bloomfield contattò in questo periodo l’organista e staff producer della Columbia, Al Kooper, col quale aveva suonato nella band di Bob Dylan, e con cui andò in seguito a New York per dar vita a Super Session, un album votato alle jam-session che mise in luce le sue capacità e quelle di Stephen Stills alla chitarra: rilasciato nel 1968, esso ricevette ottime recensioni ed 51t+yVTVSnLil suo successo portò ad un seguito, The Live Adventures of Mike Bloomfield and Al Kooper, registrato in tre spettacoli al Fillmore West nel 1968 e pubblicato l’anno successivo, un disco caratterizzato soprattutto dal debutto di Bloomfield alla voce. Stanco dei vari tour, Bloomfield si ritirò per un periodo dalle attività di alto profilo ma continuó a lavorare come session-man e produttore, cominciando anche a scrivere colonne sonore per alcuni film (tra cui alcune pellicole pornografiche dei Mitchell Brothers!). Un anno dopo, nel 1969, Mike partecipò con Otis Spann, Muddy Waters e Paul Butterfield a Fathers and Sons, un altro esempio di un potente blues elettrificato, a cavallo tra il vecchio ed il nuovo mondo.

Questo Live at Bill Graham’s Fillmore West, registrato nel celebre locale di San Francisco ed edito nel 1969 dalla Columbia, non è forse del livello disumano di Super Session (e non solo perché l’organista Ira Kamin non è all’altezza del titanico Al Kooper, seppure molto raffinato); molte sono le voci che compaiono in questo lavoro, oltre a quella di Mike Bloomfield: Nick Gravenites, Al Kooper, Bob Jones e Taj Mahal; la sezione ritmica venne tenuta in vita dal bassista John Kahn, il batterista Bob Jones e Dino Andino alle congas, in una sinergia esplosiva che pare frutto di anni di collaborazione; alle tastiere lavorarono Mark Naftalin al pianoforte e Ira Kamin all’organo, senza pestarsi i piedi a vicenda ma trovando ognuno il proprio “Lebensraum”; per quel che concerne la sezione dei fiati, si annoverano: Gerald Oshita (sax baritono), Noel Jewkis (sax tenore) e John Wilmeth (tromba), a volte colti in alcune modalità esuberanti e trapezziste che possono ricordare il modus operandi dei The Electric Flag.

Il Chicago blues di “It Takes Time” (cover di Otis Rush) dà inizio all’album, con una melodia infuocata dalla chitarra rovente di Bloomfield e dalla voce di Gravenites, mentre “Oh Mama” è una composizione originale del repertorio di Mike Bloomfield (che le dà anche voce), che consiste fondamentalmente in una tiepida ballata blues coi rintocchi del pianoforte di Mark Naftalin. Con l’agitata “Love Got Me” la band omaggia il re del soul Arthur Conley, con la voce sui generis del batterista Bob Jones ed una nutrita sezione di fiati, a cui fa seguito la crepuscolare “Blues on a Westside“, all’altezza del suo status di leggenda, con Bloomfield che dà vita ad una dolce impennata chitarristica nella parte iniziale. L’R&B instabile di “One More Mile to Go” (dall’originale di James Cotton) ribalta le sensazioni precedenti, con l’ospite Taj Mahal che si unisce in un blues pulsante quasi alla James Brown, in cui chitarra e pianoforte si spalleggiano in maniera flemmatica. Meno lineare è la successiva “It’s About Time“, con Gravenities che canta in maniera nevrotica accompagnato da una serpentina sonora in brevi segmenti interrotti e poi ripresi continuamente, ad evocare un orologio impazzito che non lascia pace alle orecchie dell’ascoltatore, mentre l’incandescente litania strumentale di “Carmelita Skiffle” continua a girare a mille, in una dipartita finale dalla chiave rock ‘n’ roll, condito dai lampi dell’organo e dei sax nella sezione conclusiva.

Miles Davis disse a proposito di Michael Bloomfield: “quando suona per i neri, la sua merda esce nera, ma se qualcuno lo mette a confronto con James Brown, è proprio un figlio di puttana. Battute a parte, Davis avrebbe poi contribuito a raccomandare Bloomfield a Woody Herman, portandolo ad alcune registrazioni con la sua orchestra jazz. Nella metà degli anni Settanta, Mike si esibì in alcuni concerti nella zona di San Francisco, ma di rado in tour, aiutando anche gli amici in alcune registrazioni (Triumvirate, 1973 – KGB, 1976); verso la fine del decennio la salute di Bloomfield crollò inesorabilmente, soprattutto per i continui problemi legati alla droga che lo fecero mancare a molti concerti, fino alla prematura morte per overdose, avvenuta il 15 febbraio 1981 nella sua auto. La storia, si sa, è un’amante crudele, ed il caso di Michael Bloomfield risulta davvero emblematico: la sua profonda influenza rimane ad oggi del tutto ignorata alle masse; anni dopo la sua morte, Buddy Miles si riferì a Bloomfield come “la ragione principale per cui ogni chitarrista bianco sta facendo quello che sta facendo oggi. E’ stato il primo ad aprire la strada ad ogni forma del rock, specialmente per i musicisti blues di questo Paese“. Un elogio simile venne riservato anche da una serie di musicisti come Carlos Santana, che sottolineó quanto Bloomfield avesse letteralmente cambiato la sua vita, ed Eric Clapton, che indicò Mike come la sua più grande ispirazione a livello umano.

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