Museo Rosenbach – Zarathustra

Non c’è dubbio che i Museo Rosenbach siano stati vittime di un certo “revisionismo storico”: il tema scelto per questo concept-album non li aiutò di certo, in un connubio tra gli scritti del Sommo Frainteso della Storia, alias Friedrich Nietzsche (un ‘special thanks’ alla sorella per questo!) sul profeta persiano che annuncia il Superuomo, ed il busto nascosto di Benito Mussolini nell’arcimbolesco collage di copertina che contribuì, infine, ad un forte ostracismo mediatico verso questo complesso apertamente schierato a destra.

Nati tra Sanremo e Bordighera, inizialmente si facevano chiamare Inaugurazione Museo Rosenbach (dal tedesco “Ruscello di rose”) ed erano cinque musicisti provenienti da due formazioni piuttosto famose a livello locale: Il Sistema e La Quinta Strada. Alla fine del 1971 la line-up si cementificó intorno alla voce di Stefano “Lupo” Galiffi, con Enzo Merogno alla chitarra, Pit Corradi alle tastiere ed una sezione ritmica energetica eretta dal bassista Alberto Moreno e dal batterista Giancarlo Golzi. Il gruppo così formato – e con una denominazione semplificata in Museo Rosenbach – pubblicò per la Ricordi nel 1973 il suo primo e unico album, Zarathustra.

Forse quella controversa copertina sarebbe stata più comprensibile se ci si fosse soffermati sulla storia dei due autori, il celebre Cesare Monti e sua moglie Wanda Spinello, che volevano fornire solo una mera provocazione piuttosto che una rappresentazione socio-politica. A nulla valsero neanche le note scritte a scanso di ottusi equivoci:rosenbach1Zarathustra, vissuto nel 600 a.C., rinato attraverso la simbologia di Nietzsche, giunto al trentesimo anno di età lasciò il suo paese e si ritirò sui monti dove godette dello spirito e della solitudine. La sua disperata ricerca del Superuomo non vuole realizzarsi nell’immagine del violento condottiero di una razza pura, come è stata erroneamente e tristemente interpretata, bensì nella serena figura dell’uomo che, vivendo in comunione con la natura, tende a purificare da ogni ipocrisia i  valori umani”. Al retro dell’album, d’altronde, non toccò miglior giudizio, con due braccia che emergono dal medesimo sfondo nero incrociandosi, di cui una stretta da un laccio emostatico e trafitta da una siringa con inevitabili riferimenti alla droga.

Con le musiche curate dal bassista Alberto Moreno ed i testi del collaboratore esterno Mauro La Luce, Zarathustra è un epitome totale di ciò che è sinfonicamente progressive; inoltre il tema dell’album, a dispetto  delle censure, è una intelligente celebrazione del libero arbitrio sotto la luce-guida di Nietzsche e del Superuomo: l’obiettivo è quello di sbarazzarsi delle diverse tradizioni morali oppressive che hanno governato l’uomo attraverso la sua storia millenaria, e conquistare un nuovo ideale di libertà tramite una rinnovata relazione con il mondo che lo circonda. Dal punto di vista strumentale, i Museo Rosenbach si distinsero per le percussioni solide di Golzi, per il robusto canto di Galifi e per il folto dipartimento delle tastiere in cui spiccano il mellotron, l’organo Hammond, il piano Farfisa ed il sintetizzatore Moog (quest’ultimo solo in uso marginale).

Il profeta “Zarathustra occupa tutta la prima metà del disco, protraendosi in venti minuti e cinque movimenti tra lo spirito di potenza degli Osanna e l’elegante splendore dionisiaco della PFM, con l’atmosfera magica dei primi Genesis passata al mixer e impanata con un briciolo di imprevedibilità. La suite viene avviata da “L’ultimo uomocon le tastiere che guidano l’assalto iniziale, tra organi, pianoforte e mellotron dissipati in accordi di rabbia effervescenti e scomposti in diverse sovrapposizioni, con tutta la band orchestrata in una fanfara che alla fine porta ad un momento psichedelico-barocco; l’aggiunta di alcune cadenze jazz nella base ritmica permette inoltre al gruppo di dondolarsi su una particolare altalena strumentale, che oscillerá ancora nella seguente sezione Il Re di ieri“, a rendere l’aria ancora più satura, squartata dal ritmo del batterista Giancarlo Golzi e dalle chitarre sinistre di Enzo Merogno e con ancora Pit Corradi fuori dalla trincea a sfoggiare le sua abilità col suo arsenale di tastiere. Al di là del bene e del male” è pura poesia, cadenzata da una amalgama strumentale dominata da vibrafono, chitarra e organo (“Sotto quei veli, falsa saggezza, viene insultata la verità. Dalla morale che tu hai creato niente si innalzerà. Cieco nel dogma della tua fede perdi la scelta di libertà. Grigio tramonto di luci antiche l’ultimo uomo avrà“). Superuomo possiede una ritmica ben bilanciata, con delle iniezioni di agghiaccianti suoni di pianoforte elettrico ed il tempo più veloce dell’album nella sua fuga finale: è unanimemente considerato come uno dei momenti di coronamento del gruppo e non vi sono dubbi a riguardo. Il tempio delle clessidrericorda un po’ “Echoes” dei Pink Floyd, ma non lascia le cose a “sedersi” per troppo tempo, con una ripresa della prima dinamica che viene portata ad una dimensione epica. Ogni sezione è costruita per il suo massimo effetto, anche se le voci non sono sempre immediate, Galifi si snoda tra una morbida rapsodia ed un nichilismo pacifico, con alcune interessanti parti corali. Forse la cosa più notevole, è il fatto che la band sia stata in grado di evocare la parabola di Nietzsche in maniera molto efficace, con dei testi forti e coincisi a sorreggere una elaborata impalcatura strumentale. 

Gli altri tre brani contribuiscono a reiterare il concetto: in “Degli uomini la chitarra inizia finalmente a mostrare i suoi muscoli blues, in una melodia crimnsoniana con flebili gemiti del mellotron ed un ritmo hard-rock strisciante e brusco. Anche in “Della natura“, tra tempi dispari e scintillii di organi, le aspre interruzioni contrastano con l’epica finemente artigianale posta sul lato opposto. Il gioco sull’organo riporta alla mente Ray Manzarek dei Doors, mentre il finale del brano raccoglie i pezzi caduti e li avvolge in una colla pinkfloydiana: questo instabile brano permette al gruppo di esplorare le variazioni melodiche più liberamente mentre gli stati d’animo cerimoniosi che riempiono gli ultimi minuti rendono questa traccia abbastanza vicina alle sfumature generali della suite iniziale, ma con più colpi di scena: “Il silenzio è il canto della vera poesia. Un bimbo nasce questa notte: sono io. I miei occhi sono stanchi, sento ormai che dormirò. L’alba nasce dalla quiete, vergine nel proprio manto, vive e freme già“.

Dell’eterno ritornochiude il cerchio della vita con la stessa vena dei suoi due pendant, ma forse con meno raffinatezza; ricorda vagamente i modus della quarta sezione di una sinfonia (e chi lo sa se sia un caso che l’album si componga proprio di quattro tracce, quanti sono infatti i movimenti della sinfonia classica!). Si torna a rasentare l’oscurità dei King Crimson nella spigolosa introduzione a synth, immediatamente seguita da una parte più melodica destinata però ad irrigidirsi poco dopo. “Strani presagi accendono dubbi mai posti! Lego il mio nome alla vita, alla morte, alla gloria? Purtroppo è destino che io non riceva alcuna risposta, se credo veramente in me. Vita mi chiedi se io ti ho servita fedele; di fronte alla morte non ho reclinato mai il capo. Nemmeno per gloria ho reso sprezzante o altero il mio viso. Ho chiuso degnamente un giorno“. E così lo Zeitgeist si annichilisce, con il classico concetto nietzschiano del tempo circolare che viene mutato in musica. 

I Museo Rosenbach hanno offerto un suono più grintoso rispetto alla maggior parte delle band italiane degli anni Settanta e non solo perché la produzione è stata abbastanza torbida: Stefano Galifi è infatti un cantante meno operistico e più naturale di molti altri vocalist del periodo, le chitarre blues-rock di Enzo Merogno sembrano deviate in una modalità funky con un fuzz che si avvicina al suono di Brian May, mentre il lavoro sulle tastiere di Pit Corradi conta pochi eguali nella storia del Bel Paese. Si possono scorgere alcune influenze in “Trespass” dei Genesis, Acquiring the Taste dei Gentle Giant e Thick as a Brick dei Jethro Tull, eppure il Museo Rosenbach non ha solo “filtrato” questi capolavori manieristicamente per creare qualcosa di coinvolgente, ma ha saputo confezionare un disco che andasse oltre la copia del noumeno, un concept-album filosofico di estrema potenza.

Dopo la pubblicazione del 33 giri ed alcuni concerti, grazie soprattutto al boicottaggio della RAI il Museo Rosenbach fu costretto a chiudere i battenti, con Giancarlo Golzi che troverà maggior fama e denari ai Matia Bazar. Zarathustra è un disco “nato postumo”, tanto per rispolverare una massima di Nietzsche… ma penso che la sua ora sia finalmente arrivata! D’altronde lo stesso filosofo aveva detto che “la musica non è un’arte ma una categoria dello spirito umano“… Un album da superuomini evoluti, decisamente!

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