The Zombies – Odessey & Oracle

Dunque, gli Zombies…
A dispetto del nome non vi sono in agguato nè George Romero nè Stephen King e non stiamo neppure per ascoltare un gruppo trash-metal dal nome banale: l’unica invasione che dobbiamo temere non riguarda i morti viventi ma è bensì quella British, dal momento che ci troviamo nella mite Inghilterra dello scadere degli anni Sessanta. Rod Argent alle tastiere, Paul Atkinson alla chitarra, Hugh Grundy alla batteria, Colin Blunstone alla voce e Chris White al basso: questi 5 giovani (di allora!) si presentano con uno stile pulito, certamente sixties ma più sottile e jazz, che trascende ogni sorta di categorizzazione.
Il critico musicale Richard Meltzer definì adeguatamente gli Zombies come “una fase di transizione tra i Beatles e i Doors” ma, come spesso capita a scapito del mainstream, vennero smarriti in un ginepraio di mille altri gruppi di cui la storia della musica ha spesso dimenticato il loro nome.

Dopo vari flop hippy da inizio carriera, ecco che decidono di azzardare un secondo album e l’occasione che si presenta è assai seducente: nel 1967 Abbey Road apre le porte agli Zombies (e nei celebri studios per la prima volta entra un disco indipendente) e, seppure con un budget limitato ed i minuti contati, hanno modo di registrare molte delle tracce presenti nel disco, che sarà rilasciato dalla CBS nel 1968. Tuttavia il successo non arriva, e già dopo anni di frustrazione, poche settimane dopo la registrazione la band si scioglie. Il caso vuole che nemmeno due anni dopo il singolo “The time of season“, promosso oltre oceano, divenne una hit ed una delle canzoni simbolo degli anni Sessanta.

L’errore ortografico “Odessey” nel titolo dell’album è il risultato di una svista da parte del disegnatore della copertina, tale Terry Quirk (coinquilino del bassista Chris White); stessa sorte toccherà alla superlativa “Butcher’s Tale Somme 1916” stampata come “Butcher’s Tale (Western Front 1914)”… evidentemente di lsd ne girava parecchio!

Ma veniamo quindi al disco: illumina la scena il blues di Care of cell 44” (in principio denominata “Prison song“) dove si musica la storia di un uomo in attesa di ritornare a casa dal carcere da cui è detenuto, mentre scrive alla sua ragazza. Disperatamente sobria, orecchiabile quanto basta per presentarsi al grande pubblico, eppure il meglio deve ancora venire. Il melodramma trattenuto nella opening track viene rilasciato in “A Rose for Emily“, un pezzo gracile riguardante una zitella (all’epoca “single” non si usava, suppongo!) basata su un racconto di William Faulkner: la canzone veste semplicemente un pianoforte a sostegno di Argent, che condivide la voce con Blunstone evocando una grande profondità emotiva. Richiamano quasi i Beach Boys “Maybe After He’s Gone“, “Beechwood Park” e “Brief Candles” (ispirato da un libro di storie di Aldous Huxley), mentre “Hung up on a dream” ha un riverbero più psichedelico, che vira dritto fino a “Changes, l’ultimo brano registrato, la cui  performance a cappella e mellotron richiama ad una intima riflessione sul potere del denaro di mutare le persone.
I Want Her, She Wants Me” dal vestito pop britannico si rivela più acuta delle apparenze, merito anche del clavicembalo a sottolinare la raffinatezza del loro sound e di un Chris White dominante al basso; “This Will Be Our Year”  fa invece uso di trombe (uno dei pochissimi casi di sovraincisione) in un modo che ricorda quasi “Penny Lane” dei Beatles; un discorso simile va fatto con “Butcher’s Tale“, che è però uno splendido e sentito componimento ad organo, il cui titolo riprende uno dei racconti di Canterbury, per un’intensa canzone contro la guerra – ispirata principalmente alla Prima Guerra Mondiale – che echeggia in “my mind won’t stop shaking” scandito fino ai brividi.

Eppure, nonostante la piacevolezza del disco, “Time of the Season” rimane sicuramente il grande successo “postumo” degli Zombies, acquasantiera del loro battesimo per la generazione dei fiori sui cannoni!

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