Pavlov’s Dog – Pampered Menial

In un panorama americano apatico di emozioni prog, ha inizio la storia dei Pavlov’s Dog (nome ispirato al medico russo Ivan Pavlov e ai suoi studi sul condizionamento umani sui cani). La band, prima di tutto, si caratterizza per un insolito numero di componenti: sono ben sette, infatti, i “cani di Pavlov” che abbaiano tra folk, rock e qualche latrato di progressive.

La loro storia ha inizio a Saint Louis, nel Missouri (quindi nel Mid-west dei Kansas) dalle ceneri di una piccola band chiamata “High on a Small Hill”, dove suonavano David Surkamp (voce e chitarra) e Rick Stockton (basso). In breve tempo riuscirono ad essere ingaggiati dalla major Abc/Dunhill: Pampered Menial uscì, quindi, all’inizio del 1975 per questa label, ma per una serie di cavilli legali, il gruppo si discostò dall’etichetta e pochi mesi dopo l’album fu ristampato dalla Columbia/Cbs, a cui si legarono.

Gli altri membri della band, oltre ai citati Surkamp e Stockton, furono: David Hamilton (tastiere), Doug Rayburn (mellotron e flauto), Mike Safron (batteria e percussioni), Siegfried Carver (violino) e Steve Scorfina (chitarra solista). Dato l’elevato numero di componenti, in questo album troviamo melodie ricche e meravigliose, un sacco di mellotron e diversi altri strumenti come il violino, il flauto, chitarre elettriche e acustiche, in atmosfere blues e folk con qualche rara eccezione heavy. Una band difficile da catalogare, dato che non manca neanche qualche bagliore prog.

All’uscita di Pampered Menial, Surkamp dichiarò: “Registrammo in modo molto istintivo, come se suonassimo dal vivo ed in effetti la resa finale fu molto simile a come suonavamo in concerto. Nel gruppo c’erano molti musicisti e ognuno cercava di dare il massimo: eravamo una band molto rumorosa, così anch’io cantavo usando la voce come se fosse uno strumento musicale per emergere sugli altri.

L’immagine di copertina è una rivisitazione dell’opera “Low Fife” dell’artista ottocentesco Sir Edwin Henry Landseer, celebre per avere disegnato i quattro leoni in bronzo ai piedi della colonna all’ammiraglio Nelson in Trafalgar Square.

Bisogna innanzitutto sottolineare la particolarità della voce di David Surkamp, che viene spesso confuso con una donna: si tratta di un vibrato androgino con un timbro forse paragonabile a quello di Sonja Kristina dei Curved Air e a Grace Slick nei Jefferson Starship. O si odia o si ama, sicuramente non ci sono mezze vie.

Apre il disco “Julia“, una ballata con uno sfondo di mellotron e flauto. Sicuramente una buona traccia, a cui la band deve la fama. Devo però ammettere che trovo il testo un po’ banale e probabilmente, se non fosse per l’elegantissima voce di Surkamp e i bellissimi passaggi di flauto, suonerebbe di sicuro più convenzionale. Tuttavia è un bell’inizio, e quel piano è intima suggestione. Nulla da eccepire, ma quando arriva Late November” è un’altra storia: una canzone brillante e malinconicamente autunnale, perfetta da ascoltare nei giorni di pioggia, a mio avviso ben più convincente dell’opener.

La trascinante “Song Dance“, unico pezzo scritto da Mike Safron, viene avviata da mellotron e una forte chitarra che completa l’atmosfera (un po’ stile REM, un po’ Cream), ma soprattutto la voce di David e la pausa col violino di Carver portano la melodia verso un livello più elevato. Una canzone quasi pesante, a volte. Ma è un peso che si porta volentieri, specie quando gli archi e il piano temperano il clima e ci fanno respirare un’aria pulita in cui tuttavia l’influenza dei Kansas pare molto evidente. “Fast Gun” è uno strano brano che simula gli ambienti del Far West, ma sembra non scavare poi tanto a fondo. Nulla di inascoltabile, per carità, ma dopo un esordio in pompamagna ci si aspettava qualcosa di più convincente. Se volete una buona canzone rock’n’roll, ecco la seguente Natchez Trace“: grande pianoforte. Grande ritmo. Gran bella traccia. E le buone impressioni sono confermate dalla passionale “Theme from Subway Sue“, un brano interessante con la strumentazione al completo, in cui la voce di David crea un effetto speciale molto piacevole quando entra in collisione con quella chitarra così spigolosa.

E’ un disco breve e siamo già quasi allo scadere: “Episode” in un connubio tra violino e voce, si rivela una ballata con una marcia in più mentre “Preludin” (dal nome di un derivato dell’anfetamina) è una piacevole sorpresa: un breve brano strumentale in cui finalmente troviamo i motivi per cui quest’album viene spesso catalogato nel progressive. Intrigante.

L’ultima traccia chiude l’album in bellezza: Once and Future Kings inizia con una sezione di chitarra e voce, che cambia improvvisamente con un piano ultra veloce, tagliato poi da un violino triste. Alla fine David Surkamp raggiunge altissimi intervalli, il tutto con la compagnia di una chitarra quasi psichedelica. Questo è un altro momento avvincente di rock-progressive anche se le molte sezioni distinte in questa canzone forse mancano di transizioni adeguate.

Che dire? Un album stimolante nell’ambiente americano coevo ben privo di emozioni prog.

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