Pink Floyd – Meddle

Dallo sbarco sulla Luna al crollo del muro di Berlino, dall’abbandono di Syd Barrett alla sofferta reuniun del Live 8: i Pink Floyd sono un gruppo che non ha bisogno di eccessive presentazioni, una band che ha attraversato la storia dell’umanità parallelamente a quella della musica, passando dalla psichedelia istintiva al progressive ponderato, dallo space-rock di Waters (forse inventandolo) agli ultimi battiti pop-rock di Gilmour e The Division Bell.

I Pink Floyd esordirono come quartetto nel lontano 1966, con il nucleo composto da Nick Mason (batteria), Roger Waters (basso) e Richard Wright (tastiere) e Syd Barrett (chitarra) che viene battezzato definitivamente proprio da quest’ultimo, fondendo i nomi dei due bluesman americani Pink Anderson e Floyd Council. Tra i club inglesi la loro inedita psichedelia si fece subito strada, e fu con brani come “Astronomy Domine” che il pubblico accorse numeroso e la EMI decise di metterli sotto contratto (salvo poi dirottarli alla Columbia). Siamo nel 1967, anno d’uscita dell’oro nero di The Piper at the Gates of Dawn, registrato ad Abbey Road in contemporanea a Sgt. Pepper dei Beatles.

Nel frattempo qualcosa si ruppe: Barrett non resse ai ritmi dell’inaspettato successo e venne sostituito dal chitarrista Dcover_29441717102008avid Gilmour: in A Saucerful of Secrets  del fragile spirito di Syd rimase soltanto “Jugband Blues”. Sono del 1969 la colonna sonora di More ed Ummagumma, che sarà il primo album rilasciato sotto etichetta Harvest (la collana della EMI per i gruppi underground): qui iniziano i Pink Floyd meno psichedelici e improvvisativi, e più votati al progressive ragionato.

Nel 1970 la transizione prese definitivamente forma col suono di Atom Heart Mother  (Harvest, 1970), che piombò direttamente al numero uno in classifica; con Meddle l’anno dopo i Pink Floyd fecero un altro significativo passo nel cuore del rock progressivo, riducendo l’orchestrazione complessa del precedente lavoro a favore di un suono più semplice, ma ancora evocativo. La copertina è l’unica firmata dagli stessi Pink Floyd, che rifiutarono la proposta di Storm Thorgerson (del sedere di un babbuino!) e suggerirono un primo piano ravvicinato di un orecchio sotto le increspature dell’acqua, fotografato poi da Bob Dowling. Registrato inizialmente ad Abbey Road, in seguito la band dovette trasferirsi in altri studi londinesi, data la carenza di equipaggiamenti adeguati.

One Of These Days” mostra le abilità della band all’unisono, in un lavoro strumentale corale dal riverbero sinistro (non caso, Gilmour dichiarò che considera la canzone il pezzo più collaborativo prodotto dal gruppo). La traccia apre l’album in un modo eccellente, dopo alcuni rumori aerodinamici seguiti dalla slide guitar distorta di Gilmour, dall’organo di Wright (anche al synth) e dal virtuoso Waters al basso filtrato dall’effetto eco Binson, in un’esplosione sonica dove la band ci colpisce con tutto quello che trova, tra psichedelia e precoce space-rock. In questo energico brano semi-strumentale la sola riga testuale viene cantata dal batterista Nick Mason, la cui voce viene elettronicamente sfigurata nel ringhiare minaccioso di “One of these days I’m going to cut you into little pieces(una frase indirizzata ad un disc jockey della BBC, mal sopportato da Waters). 
La poetica “A Pillow of Windsanticipa il tono scuro di fondo di The Wall: una ballata abbastanza nostalgica, che placa le atmosfere del brano iniziale e riesce nel suo semplice scopo, con un’atmosfera ipnotica costruita attraverso accordi di chitarra acustica e voci celesti. Una curiosità: secondo Nick Mason, il titolo della canzone deriva da una possibile mano del Mahjong, un gioco del quale la band si era appassionata in quel periodo. 

La quasi beatlesiana “Fearless” è un’altra canzone piacevole, con un inusuale appoggio: i sostenitori del Liverpool nel finale cantano il loro inno ‘You’ll never walk alone’ (ironico che Waters sia un sostenitore dell’Arsenal fin dall’infanzia), a creare una consistenza finale surreale. L’attenzione al dettaglio qui – come nel resto del disco – è assolutamente magistrale: più la si ascolta, più si le piccole sfumature della musica si fanno evidenti. Ancora una volta, la chitarra ci intrappola nelle sue corde.
Le seguenti “San Tropez” e “Seamus” non sono tra le migliori del catalogo, ma non riescono neanche a rovinare l’album al punto di renderlo inferiore, pur sembrando tuttavia fuori luogo. La pigra e disimpegnata “San Tropez” offre bei elementi di salone-jazz sulla spiaggia – specialmente nel pianoforte di Wright. Può essere una deliziosa canzone se si segue il ritmo delle parole di Waters e ci si dimentica che è soltanto un numero pop-swing. “Seamus” (dal nome del cane di Steve Marriott degli Humble Pie dato in temporaneo affidamento a Waters, che qui partecipa a modo suo) non aggiunge nulla al disco, ma appare confortevole, con il suono gentile di una chitarra pizzicata ed un rilassato pianoforte, che fornisce un raro flashback delle origini del gruppo come cover band blues. Il cane ululante riflette una parte dell’umorismo dei Pink Floyd alla ricerca di se stessi.
Con “Echoes” si supera la prova del tempo, in una suite di quasi 24 minuti, il cui embrione si chiamava “Nothing – Part 1 to 24” ed era un omaggio a Terry Riley. L’inizio vede una nota del pianoforte passata sotto l’effetto Leslie (un incidente secondo Wright, che stava provando quando Waters mise quella nota attraverso un microfono e poi sotto il Leslie). Attraverso suoni primordiali e dalle increspature dell’acqua emerge ogni singolo membro della band, nel loro primo capolavoro senza soluzione di continuità: dall’apertura malinconia al drammatico coro del primo movimento, alla pausa strumentale evocativa nel mezzo, alla breve apparizione dell’organo di Wright, che viene poi sepolto nella miscela; la tensione sale gradualmente con qualche percussione ed una raffica araldica di echi di chitarra: con questo brano i Pink Floyd hanno dimostrato che era possibile creare musica intellettuale anche senza eccessivi sofismi tecnici. La malinconia ordita strumentalmente è cullata dalle voci di Gilmour e Waters, con un testo metaforico profondamente stimolante: “Overhead the albatross hangs motionless upon the air and deep beneath the rolling waves. In labyrinths of coral caves the echo of a distant time comes willowing across the sand and everything is green and submarine, and no-one showed us to the land, and no-one knows the where or whys but something stirs and something tries and starts to climb towards the light.

E’ chiaro che l’impatto di Meddle sia stato ingiustamente oscurato dai successivi album; non siamo al livello del classico capolavoro cognitivo di The Dark Side of the Moon, nè del leggendario e nostalgico Wish You Were Here, o del rompicapo concettuale di The Wall, ma in realtà tutta la gloria dei Pink Floyd è iniziata con questo disco, che ha scolpito un profondo cuneo nella carriera del gruppo. Una creatura discografica meno famosa e controversa del precedente bovino di Atom Heart Mother, ma ai posteri di certo più significativa: tutto qui si incastra alla perfezione, anche l’insolita combinazione di diverse canzoni acustiche e semplici preparati folk/blues, che mettono in luce i due capolavori indiscussi dell’album. Senza eccessivi effetti psichedelici o arrangiamenti orchestrali, il quartetto ha qui sfornato un must per ogni collezione rock che si rispetti.

Precedente Eloy - Inside Successivo Osanna - L'Uomo