Pink Floyd – The Wall

The Wall è storicamente il disco per antonomasia dei Pink Floyd, anche se più propriamente si potrebbe considerare un album solista di Roger Waters, che qui porta a completa sublimazione tutte – ma proprio tutte! – le ossessioni della sua vita.

Nonostante i grossi risultati fino ad allora ottenuti, la situazione finanziaria dei Pink Floyd allo scadere degli anni Settanta non era proprio tanto florida: alcuni investimenti azzardati si sommarono al mezzo flop di Animals, alle ambizioni solistiche di Gilmour e Waters ed ai postumi di frustrazione dell’impareggiabile capolavoro di The Dark Side of the Moon. In questa difficile circostanza, Roger Waters offrì ai compagni due progetti risolutivi: uno lo denominó “The Pros and Cons of Hitch-Hiking“, l’altro “Bricks in the Wall“. Il primo non convinse nessuno (soprattutto Gilmour che lo definì addirittura “inascoltabile”) e finirà nel catalogo solista di Waters senza troppa convinzione; il secondo incontrò invece un’unanime approvazione, compresa quella della EMI che elargì subito un cospicuo anticipo spese. Le ambizioni di vanagloria esistenziale dietro a questo progetto erano enormi: un doppio album, un tour mondiale ed infine un film.

I concerti si svilupparono attorno ad un completo “Sound and Vision” con casse sonore posizionate sotto ogni poltrona ed un palcoscenico dominato da un muro destinato a cadere, il maiale volante Algie ricolorato di nero, bombardieri tedeschi in picchiata, emblemi dittatoriali e gli spaventosi pupazzi di Scarfe: per tutta questa scenografia, il tour venne organizzato in spazi chiusi e non negli stadi (che Waters ha sempre odiato… salvo poi da solista eseguire The Wall proprio in queste strutture!) con più date negli stessi luoghi, dato il grande impianto scenico difficile da trasportare; il tour di fatto fece solo tre tappe: alla Sports Arena di Los Angeles (febbraio 1980), al Nassau Coliseum di New York (fine febbraio) ed infine all’Earls Court di Londra (agosto). Sul palco salì assieme al gruppo la Surrogate Band che comprendeva Snowy White (chitarra), Andy Brown (basso), Peter Wood (tastiere) e Willie Wilson (batteria), mentre ufficialmente Richard Wright collaborava solo in veste di figura di supporto (essendo stato licenziato da Waters dopo essersi trasferito in Grecia con la moglie) – un dato che gli consentirà comunque di non partecipare alle perdite.

Per la prima volta dai Pink-Floyd-theWalltempi di A Saucerful of Secrets la grafica di copertina non vide coinvolto Storm Thorgerson e, senza nessun colpo di scena, anche questa fu opera di Roger Waters, con il contorno delle figure grottesche di Gerald Scarfe. La monumentalità del progetto (Waters aveva infatti materiale per ben sei facciate!) richiese l’intervento di un produttore esterno, il canadese Bob Ezrin, e dell’arrangiatore Michael Kamen; in questo disco Gilmour venne accreditato come co-autore solo su tre brani mentre Wright venne messo del tutto alla porta e per la prima volta nessun brano portó la sua firma. Durante l’ultima tappa del tour In the Flesh, al Montreal Olympic Stadium nel luglio 1977, un gruppo di spettatori in prima fila irritarono un già suscettibile Roger Waters con le loro urla, a tal punto che il bassista arrivò a sputare addosso ad uno di loro: questo fatto ispirò Waters a scrivere una trama – neanche tanto allegorica – ruotante attorno alla vita della rockstar Pink, alle prese con una profonda crisi personale mentre ripercorre le tappe della sua esistenza, costruendo attorno a sé un muro protettivo in cui ogni mattone simboleggia uno dei motivi della sua sofferenza. La metafora è ovviamente palese, con innumerevoli riferimenti biografici che portano dritti alla stesso Waters (la morte del padre in guerra, l’allontanamento dell’amico Barrett, la madre iperprotettiva e la moglie fedifraga, le audaci groupies ed il distacco dal pubblico, gli insegnanti dispotici e la rivolta verso le stesse istituzioni).

L’aria di sortita è “In The Flesh?” e non poteva essere altrimenti: essa si riferisce proprio al tour omonimo, terminato con l’episodio che avrebbe spinto Waters a comporre il suo concept-album; nel testo vi è una totale idiosincrasia verso la superficialità del pubblico (“If you wanna find out what’s behind these cold eyes, you’ll just have to claw your way through this disguise“), che culminerà nel secondo lato del disco. Vi è un rumore bellico di sottofondo identificabile con il suono della picchiata di uno Stuka (uno dei più efficaci bombardieri della seconda guerra mondiale), che evoca nell’ascoltatore la morte in guerra del padre di Pink (il padre di Waters morì infatti in combattimento durante lo Sbarco di Anzio nel 1944) mentre il bambino che vagita alla fine del brano simboleggia, probabilmente, la nascita dello stesso cantante.

La breve “The Thin Ice“, cantata da un dolce Gilmour e poi da Waters con toni e parole più aspre, ripercorre la giovinezza di Pink mentre con Another Brick In The Wall Part 1” ha inizio l’erezione del muro, dopo la perdita della figura paterna. In “The Happiest Days Of Our Lives” l’elicottero evoca ancora le scene di guerra legate alla morte del padre di Pink (e di Waters) e serve da introduzione alla famigerata Another Brick In The Wall Part 2“, un colosso della storia della musica che vendette su 45 giri ben 350 mila copie in cinque giorni; questa seconda parte si concentra sulla scuola e sulle istituzioni in generale, e per meglio rendere l’idea Bob Ezrin decise di sovraincidere per ben 12 volte un coro di 23 ragazzini di età compresa tra i 13 ed i 15 anni, presi dalla classe di musica del professor Alun Renshaw dell’Islington Green School, posta vicino allo studio: benché la scuola avesse ricevuto un anticipo di 1000 sterline, non ci fu nessun accordo con i componenti del coro riguardo ai diritti d’autore sulle copie vendute e, solo con la legge inglese sul copyright del 1996, essi acquisirono il diritto di guadagnare la quota che spettava loro (stimata intorno alle 500 sterline). Un’altra curiosità: in Italia la prima tiratura venne ritirata dai negozi perché sul retro per errore era stato stampato “Young Lust” e non “One of my Turns”. 
L’iperprotettiva “Mother” chiude il lato A del primo disco, con la voce di Roger Waters condotta solamente da una chitarra acustica, mentre il ritornello viene sillabato da David Gilmour nelle perfide vesti materne (“Mother’s gonna make all your nightmares come true. Mother’s gonna put all her fears into you.Mother’s gonna keep you right here under her wing.She wont let you fly, but she might let you sing“), accompagnato, oltre che dall’acustica, da un organo, un pianoforte ed una batteria, alla fine del quale viene eseguito un breve assolo di chitarra elettrica. Il brano si conclude con la voce di Waters che esclama: “Mother did it need to be so high?”, riferendosi al muro che ormai è invalicabile.

Il lato B del primo disco si riapre con “Goodbye Blue Sky” in cui nonostante la fine della guerra, Pink, orfano di padre e succube di una madre soffocante, non riesce a risollevarsi dalla sua atavica depressione: “the flames are all long gone, but the pain lingers on“. Questa canzone giustappone uno splendido lavoro di chitarra ad un inquietante sintetizzatore mentre i rumori degli aerei che si sentono in sottofondo alla fine del brano suggeriscono che Pink stia andando negli Stati Uniti, per cercare di diventare una rock star e mettere da parte il sofferto passato: in un’intervista all’uscita dell’album, Waters descrisse la canzone come un riassunto del primo lato del disco e della vita di Pink fino a quel momento. Nel breve interludio di “Empty Spaces” si può udire chiaramente un messaggio criptato: se la si ascolta al contrario rallentando la velocità, si sente: “Any better: congratulations! You’ve just discovered the secret message. Please, send your answer to “Old Pink”, care of the “Funny Farm”, Chalfont“. “Funny Farm” è un termine slang inglese con il quale si indicano gli ospedali psichiatrici, un chiaro riferimento al mai dimenticato fondatore dei Pink Floyd, Syd Barrett, allontanato dal gruppo per problemi comportamentali legati all’assunzione di droghe.
La roboante “Young Lust” è uno dei brani migliori dell’album, una superba canzone composta da Gilmour che la canta interamente su un riff orecchiabile ed un potente ritornello; il suo testo voluttuoso ci suggerisce che Pink si è ormai trasferito negli Stati Uniti ed è divenuto una rockstar e, di conseguenza, è continuamente assalito dalle groupies. La voce dell’operatore telefonico alla fine del brano ci indica invece che il rapporto tra Pink e la moglie si stia ormai sgretolando e, a questo punto, il protagonista perde la ragione. Una curiosità: il dialogo con l’operatore fu registrato all’insaputa di questi da Roger Waters, che chiamò da Los Angeles il suo vicino di casa a Londra. La feroce “One Of My Turns” ci mostra successivamente come Pink sia esploso di rabbia dopo aver saputo del tradimento della moglie, e quindi decide di invitare per vendetta una groupie nel suo appartamento: questa tenta in tutti i modi di catturare l’attenzione del suo idolo, che però è intento a riflettere sulla fine del rapporto con la sua compagna; in preda ad un attacco d’ira, distrugge la casa e fa scappare la ragazza con le sue parole allarmanti (“Run to the bedroom, in the suitcase on the left you’ll find my favorite axe.Don’t look so frightened, this is just a passing phase, one of my bad days. Would you like to watch TV?“).
La straziante “Don’t Leave Me Now” viene divisa in due parti distinte: la prima possiede toni piuttosto calmi e cinici, scanditi da pianoforte, organo Hammond e sintetizzatore, mentre la seconda parte viene spezzata da un timbro più aspro e culmina nell’assolo di chitarra elettrica di David Gilmour. Dopo la separazione con la moglie, Pink cade in una profonda depressione e implora la donna di non lasciarlo: Waters, in un’intervista del 1980 con Jim Ladd, descrive la traccia come il racconto di “due persone che si sono comportate veramente male l’uno con l’altra” ma che sono comunque terrorizzate all’idea di porre fine alla loro relazione.

Another Brick In The Wall Part 3” porta a compimento l’edificazione del muro, in una terza parte più breve delle precedenti: quasi del tutto simile alla prima sezione, essa possiede tinte molto più forti, guidate dal predominio del basso e dal testo isterico: “I don’t need no arms around me and I dont need no drugs to calm me. I have seen the writing on the wall, don’t think I need anything at all“. La seguente “Goodbye Cruel World” chiude il primo disco, estendendo la disperazione con i versi “Goodbye, all you people, there’s nothing you can say to make me change my mind. Goodbye” che lasciano presagire il peggio.

Il secondo disco si avvia con l’ambrosia musicale di “Hey You“, una ballata folgorante in cui Pink comprende di aver sbagliato a chiudersi in se stesso e tenta di recuperare qualche contatto con il mondo esterno: per quanto egli ci provi, però, il muro gli impedisce ogni comunicazione. La ricerca continua prostrante nelle suppliche reiterate di Is There Anybody Out There?“, stese su una strumentazione acustica e malinconica: indubbiamente la parte più spaventosa del film dal punto di vista visivo.
La deprimente “Nobody Home” secondo David Gilmour descrive la vita delle rockstar durante i tour, in particolare i versi “I got nicotine stains on my fingers. I got a silver spoon on a chain. Got a grand piano to prop up my mortal remains” fanno riferimento a Richard Wright, che, in quegli anni, assumeva cocaina e ne stava diventando dipendente. All’inizio della canzone si sentono delle voci provenire da un televisore, che vengono poi sovrastate da quella di Pink che, ubriaco, mormora qualcosa ad una ragazza in fuga da lui. Roger Waters canta questa ballata accompagnato soltanto da un pianoforte, e con lo scorrere della canzone si aggiungono malinconicamente archi, fiati, basso e sintetizzatore.
In “Vera” (nda: Vera Lynn era una cantante britannica della Seconda Guerra Mondiale) Pink ripensa al padre perduto, in una canzone che si apre con la frase “Where the hell are you, Simon? ed alcuni effetti sonori estratti direttamente dal film del 1969 “I lunghi giorni delle aquile” di Guy Hamilton; il suono di alcuni rullanti allo scadere introduce la canzone successiva: l’enfatica “Bring The Boys Back Home“, secondo Waters, il brano che unifica l’album ed in cui, tra orchestra e coro, Pink continua la sua intima riflessione.

E’ paradossale che l’insuperabile “Comfortably Numb“, il pezzo più bello dell’album e della storia dei Pink Floyd, sia stata composta da Gilmour che lo lasciò fuori dal suo primo disco solista; il testo venne invece steso da Waters, ripensando a quando, durante il tour di Animals nel 1977, un dottore gli aveva dovuto iniettare un medicinale per l’epatite prima di un concerto a Philadelphia, mentre sullo stile su cui eseguirla Waters e Gilmour litigarono parecchio: Gilmour avrebbe preferito uno stile più grunge, ma alla fine prevalse ovviamente l’idea di Waters. In questo brano Pink non riesce più a sopportare la pressione della vita da rockstar e ha un malore nella sua camera d’albergo prima di salire sul palco, così un dottore viene mandato nella sua stanza per fargli un’iniezione, dandogli la forza necessaria ad esibirsi. Alle parole del medico Pink risponde confusamente evocando istantanee dell’infanzia e correlandole alla situazione nella quale è precipitato, con un testo che avanza in forma colloquiale, con la voce di Waters che interpreta il dottore e quella di Gilmour che personifica Pink.

Il lato B del secondo disco prende forma con “The Show Must Go On“, in cui nel coro iniziale si può udire Bruce Johnston dei Beach Boys. Lo stress dello show porta all’allucinazione che culmina nella visionaria In The Flesh“, in cui Pink si immagina durante un concerto, mentre canta davanti al suo pubblico con lo stesso atteggiamento di un dittatore che fomenta la sua sua folla (“Who let all of this riff-raff into the room? There’s one smoking a joint, and another with spots! If I had my way, I’d have all of you shot!“). 
Run Like Hell“, altro brano composto dal combo Gilmour-Waters, vede Pink in preda ad una rabbia ancestrale mentre caccia il suo pubblico minacciandolo con parole folli, tra chitarre graffianti ed una sezione ritmica tagliente e pericolosa. In “Waiting For The Worms” il cantante, ormai barricato nel bunker del suo muro, sta aspettando i “Vermi”, immaginandosi ancora mentre incita i suoi seguaci all’odio verso tutti i “diversi”  (“the queers and the coons, and the reds and the jews”) e, tramite un megafono, urla alla massa con riferimenti espliciti ai campi di sterminio nazisti (“Waiting to turn on the showers and fire the ovens“). Una curiosità: “The worms” è il nome di una setta neonazista britannica nata nel Dopo Guerra.

Nella fugace parentesi di “Stop” Pink, ancora in preda all’allucinazione, capisce di non poter continuare con la vita che si è costruito e grida disperato la sua volontà di cambiarla, immaginandosi in una cella mentre aspetta che inizi il “processo” che dovrà giudicarlo, che avrà luogo nell’opera musicale di “The Trial“, in gran parte condotta da un’orchestra e scritta nello stile teatrale di Bertolt Brecht e Kurt Weill. La canzone si apre con il suono di un chiavistello che chiude la traccia precedente, dopodiché entrano i vari strumenti e la voce di Roger Waters che impersona i vari personaggi; si conclude poi con il frastuono di un muro che crolla: Pink ha un terribile esaurimento nervoso e questo processo (“Trial”) rappresenta un punto fondamentale per la sua salute mentale, dato che viene giudicato per essere stato “colto in flagrante mentre mostrava sentimenti di natura quasi umana” (“The prisoner who now stands before you was caught red-handed showing feelings of an almost human nature“). Vari personaggi della vita della rockstar partecipano all’udienza condotta dal giudice Verme, in qualità di testimoni: il maestro di scuola, la moglie, la madre. La prima parte del dibattito è pilotata dall’avvocato dell’accusa, interrotto dal ritornello dell’afflitto Pink che si chiede dov’è la porta nel muro, mentre la sentenza del giudice chiude la canzone, ordinando che Pink venga messo davanti ai suoi pari e gli impone di abbattere il muro. Outside The Wall” conclude il processo ed il disco: demolito il muro, Pink moralmente sottolinea che l’essere umano, anche volendo, non si può isolare dal mondo esterno ma la melodia conclusiva che è la stessa dei primi secondi di “In the Flesh?” e la frase rotta a metà (“Isn’t this where…“, che si ricollega con le prime tre parole dell’album, “…we came in?“) rendono la storia, di fatto, un circolo vizioso.

What Shall We Do Now?” venne eliminata per problemi di lunghezza ma rimase all’interno della copertina e sarà recuperata per la colonna sonora del film: nel 1982 uscì infatti la pellicola cinematografica con la relativa soundtrack, tra difficoltà di vario genere (per Waters fu “il periodo più snervante della mia vita, a parte forse il divorzio“). Il regista Alan Parker (subentrato a Michael Seresin) convinse Roger Waters a lasciare il ruolo da protagonista a Bob Geldof ed il film venne infine presentato al Festival di Cannes nel maggio 1982, riscuotendo un grande successo specie tra il pubblico più giovane.

Il disco raggiunse soltanto la posizione numero 3 nelle classifiche inglesi, ma ottenne più fortuna negli USA dove divenne un numero 1, nonostante vari problemi per le censure ai contenuti ritenuti anti-sistema e le accuse di sfruttamento dei bambini della Islington Green School.

Sopravvalutato, ingombrante, il più grande disco dei Pink Floyd è un capolavoro freddo, un po’ come The Lamb Lies Down on Broadway dei Genesis, che per questa impassibilità perderà negli anni la sua forza comunicativa. Un album che paradossalmente costruì anch’esso un muro, destinato a rompere definitivamente gli equilibri interni al gruppo: The Wall rappresenta il capitolo finale di una storia che si concluderà nel prolungamento del tour il 17 giugno 1981 all’Earls Court, l’ultimo concerto dei Pink Floyd classici, con un Richard Wright stufo e dimissionario e Roger Waters che lascerà ufficialmente la band alla fine del 1985.

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