Popol Vuh – Affenstunde

Voglio dirvi ancora una cosa riguardo a quella che sento essere l’essenza della mia arte. Popol Vuh è una messa per il cuore. È amore che si fa musica e questo è tutto”. (Florian Fricke)

Cruciale nella nascita degli indecifrabili tedeschi Popol Vuh fu l’incontro tra Florian Fricke, uno studioso di pianoforte classico e critico musicale e cinematografico, con Eberhard Schoener, direttore d’orchestra e leader della Kammeroper di Monaco, il primo ad importare un sintetizzatore Moog in Germania. Nella primavera del 1969 nacque così il nucleo originario dei Popol Vuh (dal nome del libro sacro dei Maya), formatosi in una prima fase da Fricke, Frank Friedler e Holger Trulzsch (dagli Embryo): secondo i suggerimenti di Schoener, il terzetto avrebbe dovuto ripercorrere la strada battuta da Walter Carlos in Switched On Bach, ovvero rileggere le partiture classiche al sintetizzatore, ma le idee visionarie ed innovative di Fricke ebbero la meglio. Il primo atto fu Affenstunde (1971) che, a dispetto del titolo (“l’ora della scimmia“), fu un disco eseguito razionalmente dopo uno scrupoloso studio del sintetizzatore Moog, senza suoni casuali o strani come era di moda all’epoca, anche se rimane un lavoro di difficile ascolto. 128517-b

Questo album venne originariamente pubblicato dall’etichetta Liberty Records, con una immagine di copertina – disegnata dalla moglie di Fricke, Bettina – che visualizza un primo piano di una porta con delle inferriate, dalle quali si intravede un ambiente interno illuminato d’arancione; nella cover posteriore si entra in questa calda dimensione, con Florian Fricke concentrato sul suo Moog, Holger Trulzsch incantato dai suoi bonghi e la dolce Bettina Fricke che pare la più simile allo stereotipo dell’hippie col suo abbigliamento floreale. 

La struttura che ospitava questa arcana atmosfera era una tenuta vicino a Wasserburg, nella Germania dell’Ovest, di proprietà di Gottliebe Gräfin von Kalnein, moglie del conte Heinrich Graf von Lehndorff-Steinort: questi divenne celebre per esser coinvolto nel complotto del 20 luglio 1944 per assassinare Hitler, in seguito al quale fu condannato all’impiccagione; la sua famiglia fu invece rinchiusa in un campo di concentramento e, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la sopravvissuta moglie Gottliebe acquistò questa struttura per tenere lezioni di arte col filosofo ed artista concettuale Fritz Schranz, per farne “un monastero per l’arte moderna e la filosofia” che, alla luce delle vere inclinazioni spirituali del fondatore Florian Fricke, divenne un ambiente perfetto per i suoi Popol Vuh. Così Fricke, la moglie appena sposata (Bettina), Frank Fielder (che fornì assistenza tecnica a Fricke per il Moog) e Holger Trülzsch vissero in questo posto e lavorato insieme per un periodo.

La prima enigmatica tra51vsoh6BpTLccia è fondamentalmente una suite in tre parti, dal nome ispirato ad un capitolo del Codice Fiorentino (un libro completo di cultura azteca scritto da fra’ Bernardino de Sahagún nel tardo XVI secolo); la prima sezione, “Ich Mache Einen Spiegel – Dream Part 4“, inizia con rumori concreti prelevati dalla natura, per poi svilupparsi in bizzarri moduli continui e suoni circolari “cosmici”: si tratta di un brano elettronico misterioso e galleggiante che si tuffa nella piscina oscura della coscienza umana, rovistando nelle profondità del subconscio per poi, come un’onda, infrangersi in Ich Mache Einen Spiegel – Dream Part 5” che segue direttamente la composizione precedente senza alcuna transizione, lasciando il posto ad un falò di ritmi percussivi dettati da Trulzch, tra congas, bonghi tribali e campanacci. Presumibilmente 44 sogni più tardi compare Ich Mache Einen Spiegel – Dream Part 49“, dove tutto è quiete surreale, con solo qualche accenno di percussioni: rispetto all’estraniazione delle due parti precedenti, questa ultima sezione è una meditazione relativamente calma, con toni nebbiosi e accordi alla deriva, che si dissolvono dentro e fuori dal mix, plasmando un’atmosfera buia ma sicura.

La minacciosa “Affenstunde” è una composizione accattivante di 18 minuti, che prevede un dialogo coinvolgente tra le percussioni ed i loop elettronici, in un epico compendio di tutti gli elementi presenti in questo album: percussioni etniche, costanti droning elettronici, alcuni segnali acustici e sperimentali pseudo-melodie al sintetizzatore. I primi minuti sono dominati dai tamburi tribali, ma alla fine lasciano il posto a spettrali echi elettronici del sintetizzatore Moog, in un’improvvisazione che comincia a ballare con l’accompagnamento delle congas di Trülzsch, ad intervalli sporadici… Ma non importa quanto ribelle il Moog diventi, esso rimane sempre in corsa in maniera lucida, completamente integrato con tutti gli altri elementi che, come un disegno a mano libera, omaggiano un’umanità alle prese con un passato brutale ed un futuro incerto: tutte queste sfumature emotive vengono applicate in maniera sottile, dimostrando tutta la sensibilità compositiva del leader Florian Fricke. 

Affenstunde venne ​​definito da Florian Fricke come la descrizione del momento in cui “l’essere umano diventa un essere umano e non è più una scimmia“: uscito nel 1968, il film di Stanley Kubrick “2001 – Odissea nello spazio” è stato sicuramente d’influenza diretta, soprattutto se si considera che, al momento del rilascio della pellicola, Fricke era ancora un critico cinematografico per importanti testate come “Süddeutsche Zeitung” e “Der Spiegel”; questo dato è più che evidente sul secondo lato del disco, dove la title-track viaggia attraverso il caos primordiale ed innaturale con il Moog che quasi accenna alla colonna sonora dell’ungherese György Ligeti, con il risultato di un finale trascendente ed edificante. 

Dopo lo splendido In Den Garten Pharaos, registrato in parte in una chiesa, Florian Fricke ebbe una profonda crisi spirituale, che spostò i suoi interessi verso il Cristianesimo e l’Induismo; in questa fase, il tastierista finì per ripudiare letteralmente la musica elettronica, vendendo il suo Moog a Klaus Schulze e dedicandosi al capolavoro sincretico di Hosianna Mantra (1972), la perla della discografia del gruppo, un album sacro nelle evocazioni quanto il nome “Popol Vuh”.

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