Sandy Bull – Fantasias For Guitar And Banjo

Articolo tratto da OndaRock

Il volto della musica folk cambia per sempre i suoi connotati quando Alexander “Sandy” Bull registra il suo primo album all’inizio degli anni Sessanta: mescolando stilemi orientali e occidentali, la chitarra di Bull influenzerà tutti gli artisti che si stanno allora affacciando alla controcultura americana. Nato a New York nel 1941, sin dall’infanzia il giovane Sandy viene introdotto alla musica dai suoi genitori divorziati. Da bambino vive infatti in Florida con suo padre, caporedattore del magazine “Town & Country”, che gli trasmette l’amore per Hank Williams e per la musica africana. Raggiunta l’adolescenza, ritorna a New York con la madre Daphne Hellman, eccentrica arpista jazz di discreta fama nazionale.
Se a
ll’età di 8 anni, l’enfant prodige Sandy Bull ha già preso in mano la chitarra, non passa molto tempo prima che si avvicini alla batteria e al banjo, grazie alle lezioni che gli impartisce Erik Darling dei Weavers. Una volta raggiunta la maggiore età, il suo talento è sotto gli occhi di tutti: del resto, sono proprio i genitori i primi a credere in lui, tanto da spingerlo a iscriversi alla Boston University dove può approfondire i suoi studi sulla composizione. Sandy non si trova tuttavia a proprio agio dinanzi ai libri; nel giro di pochi mesi la voglia di suonare per le strade prende il sopravvento e decide di recarsi a Parigi, dove entra in contatto con la musica nordafricana. Quella miscela di suoni lontani, così semplici e nel contempo articolati, gli rapiscono l’anima e lo guidano alla volta di Beirut per acquistare alcuni strumenti autoctoni. Il destino vuole che lungo il suo cammino Sandy decida di fare una tappa a Roma, dove ha la fortuna di conoscere Hamza El Din, musicista nubiano con cui finirà per condividere un appartamento a New York negli anni a venire; si tratta di un incontro illuminante per il giovane Sandy, dato che sarà proprio il suo nuovo guru a consigliargli di acquistare l’oud, uno degli strumenti più caratteristici e difficili dell’universo arabo, di cui sarebbe diventato un virtuoso.

All’inizio degli anni Sessanta, Sandy Bull ritorna nella sua città natale e frequenta il Greenwich Village, esibendosi in club leggendari come il Gaslight Cafe e il Gerde’s Folk City. In questo periodo, si fa inoltre riconoscere suonando Bach sulla sua Fender Stratocaster, lasciando sgomenti i contemporanei almeno un biennio prima della svolta elettrica di Bob DylanSandy Bull diviene così uno dei primi protagonisti di quella vibrante scena folk che era sorta nel Greenwich Village, nella quale entra però già dipendente dall’eroina. Se parecchi musicisti hanno raggiunto la fama nonostante l’abuso di sostanze stupefacenti, nel caso di Bull le droghe avrebbero rovinato inesorabimente la sua carriera, estromettendolo dai giochi per diversi anni e condannandolo all’anonimato. Quando nel 1974 completa il suo programma di riabilitazione, è infatti troppo tardi: la sua eredità è ormai già stata spartita, frammentata nello zeitgeist della musica coeva. Viceversa, nel 1963 Bull è un artista estremamente all’avanguardia: nell’epoca delle canzonette da 3 minuti, lui registra lunghe jam strumentali dai riverberi esotici. Oltre a tutto ciò, Bull è uno dei primi a sperimentare con le sovraincisioni in studio e quando si esibisce dal vivo, è solito schierare a supporto una primitiva drum machine, accompagnando se stesso in questo modo (come documentato dall’album “Still Valentine’s Day, 1969: Live At The Matrix”).

Istrionico e visionario, come un abile artigiano, Sandy Bull ha saputo amalgamare stili orientali, gospel, minimalismo, jazz, folk e blues, dando un’anteprima di tutte quelle che sarebbero diventate forme comuni della musica mondiale diversi anni più tardi. In un certo senso, la sua word music ante-litteram è l’equivalente americana di quella proposta allora dal chitarrista inglese Davy Graham. Entrambi, nelle loro imprese pionieristiche, sono riusciti a collegare i loro strumenti alle più antiche tradizioni, grazie ai loro studi sulle musiche nordafricane e indiane: non a caso, il loro stile influenzerà artisti di diversa estrazione, come John Fahey, Robbie Basho, Steve WinwoodRoy Montgomery e Lee Ranaldo.

Pubblicato dalla Vanguard nell’agosto del 1963, “Fantasias For Guitar And Banjo” si contraddistingue per l’unico accompagnamento concesso alla chitarra e al banjo di Bull, ovvero la base jazz del batterista Billy Higgins (dall’entourage di Ornette Coleman), la cui perfetta simbiosi si manifesta già nella suite d’apertura. “Blend”, la composizione di 22 minuti che occupa interamente il primo lato del vinile, si compone infatti di un insolito mélange di folk rurale, jazz modale, bordoni medievali e raga indiani. Con “Blend” in un certo senso nasce il primitivismo americano (poi consacrato da John Fahey e dagli artisti della sua Takoma Records), ma l’uso che fa della chitarra accordata come un banjo e delle scale orientali fa sì che Bull profetizzi persino i movimenti psichedelici a venire. Lo strumento assorbe infatti tutti i moti d’animo del compositore, all’inizio del suo lungo travaglio con le droghe: dopo un incipit lento, la composizione acquista velocità dai cinque minuti in avanti, fino ad assumere le fattezze di un allucinato crescendo. Per raggiungere un tale livello di solennità, Bull prende appunti da musicisti come Ali Akbar Khan, Munir Bashir e Ravi Shankar, ma anche dagli artisti delle comunità rurali dei monti Appalachi e dal catalogo dell’etichetta discografica Folkways, di cui è un fervente estimatore. La ricerca dell’avanguardia passa, pertanto, proprio dall’elemento primitivo: mentre Jackson Pollock per maturare la sua idea di pittura gestuale era partito dall’arte nativo-americana, Sandy Bull intuisce che l’elemento folcloristico più antico e lontano è la base necessaria per inaugurare una nuova stagione musicale.

Le restanti “fantasie” sono improvvisazioni psichedeliche tenute sotto controllo, chiaramente innovative per il loro tempo, senza dubbio sostanziali nello sviluppo di inedite possibilità all’interno della controcultura americana. Un esempio in tal senso è la sua funesta interpretazione di “Carmina Burana Fantasy”, rimaneggiamento della celeberrima cantata di Carl Orff che si trasforma in un requiem per banjo, facendo emergere una nuova dimensione del pezzo. Da autentico vagabondo del Dharma, Bull prosegue poi facendo collidere nel suo fingerpicking i regni della musica classica occidentale con quelli della tradizione orientale in “Non Nobis Domine” (del compositore rinascimentale britannico William Byrd), sottolineando poi il suo virtuosismo con il narcotico bluegrass della traditional “Little Maggie”. Bull sigilla infine il suo esordio con “Gospel Tune”, dove – a dispetto del titolo – propone un folk oppressivo con chitarra elettrica contrassegnata dal tremolo, il cui groove dialoga alla perfezione con la batteria di Higgins, non facendo sentire minimamente la mancanza del basso.

Se il secondo lato non appare illuminato quanto “Blend”, vale la pena rammentare che al momento della registrazione del disco, all’inizio del 1963, i Beatles cantavano “Please Please Me” e Bob Dylan stava appena iniziando a farsi un nome. Prima del 1965 la musica araba o indiana non era ancora entrata nel lessico del folk e del rock: in quegli anni, solo Henry Flynt con i suoi raga elettrici si era spinto così lontano geograficamente, tralasciando i viaggi spaziali di Joe Meek in “I Hear A New World” (1960). Tutte queste combinazioni sperimentali – come la storia ci insegna – saranno seminali nello sviluppo del nascente rock psichedelico, ma anche di una moltitudine di altri generi che negli anni Sessanta erano ancora impensabili, come la new age o la drone music.
Per questa sua straordinaria capacità di essere un disco pionieristico quanto immediato nel suo ascolto, “Fantasias For Guitar And Banjo” è diventato un classico underground al momento della sua pubblicazione. Due calendari più tardi, il secondo album di Sandy Bull (“Inventions”) ha saputo combinare Bach, bossa nova e una superba versione per chitarre sovraincise di “Memphis” di Chuck Berry, anticipando ogni deriva che il rock avrebbe intrapreso dopo il 1967: niente male per un ragazzino che all’epoca del suo esordio aveva appena compiuto ventidue anni.

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