Spring – Spring

Gli Spring furono uno dei tanti gruppi dell’epoca dalla carriera fugace. Dopo aver girato per l’Europa, il punto di svolta arrivò quando il furgone della band si ruppe nella campagna gallese, vicino a dove Kingsley Ward aveva da poco istituito i Rockfield Studios. L’uomo rimase subito affascinato dalla circostanza dell’evento e dal loro mellotron e li invitò la settimana seguente per un provino, il cui esito fu ovviamente positivo. Il produttore Gus Dudgeon (quello di David Bowie) in una visita agli studios li notò poco dopo e, a distanza di pochi mesi con sessioni divise tra Rockfield ed i Tridents Studios londinesi, l’album omonimo uscì nel 1971 sotto etichetta RCA/Neon.

La formazione fu la seguente: Pat Moran (voce), Ray Martinez (chitarra), Adrian Maloney (basso), Pick Withers (batteria) e Kips Brown (tastiere).

Si comincia con “The Prisoner (Eight By Ten)“, con una tempesta di mellotron e di tamburi ad accernderne i riflettori; si tratta di una superba opener in cui Pat Moran canta il lamento di un prigioniero: il suo tenore è fragile, in contrasto al suo accento inglese decisamente forte ed in sintonia con questo brano etereo.

Nel pezzo migliore dell’album, “Grail“, si vedono meglio le intenzioni progressive della band. Il passaggio “Nights go on when days pass by, storms blow up and darkness rules my sky” è di puro incanto. Ormai, ogni confronto coi Moody Blues può essere dissipato… anche se entrambi presentano i mellotron nel loro arsenale, gli Spring avevano un suono più duro ed originale e questa canzone è sicuramente la loro cartina al tornasole.

La galleggiante Boats è una eccellente ballata anglo-folk che suona più come un brano di David Gray piuttosto che un pezzo progressive: si tratta un breve lavoro acustico che non sembra adattarsi al resto delle canzoni, in un connubio folk/spaghetti – Western. Non è male, anzi, ma sembra proprio il cosiddetto “cavolo a merenda” di questo disco… Un cavolo dannatamente orecchiabile e saporito. La marziana Shipwrecked Soldier è un altro punto forte che unisce martellanti rullate militari a coltellate di mellotron e trombe, tra i riff dell’acustica che gonfiano sulle parti vocali danno un tocco molto hard rock: da quel che abbiamo modo di sentire, sicuramente se avessero continuato gli Spring sarebbero diventati un interessante gruppo heavy .

La delicata “Golden Fleece“, con un testo intriso di mitologia greca e simbolismo, è un altro bel momento di romanticismo prog in cui la voce di Moran si fa vicina a quella di Peter Gabriel, ma più impastata. Le seguenti Inside Out e Gazing sono due tracce molto kingcrimnsoniane e lo si sente da subito, ma i loro toni sono pacati: la musica non è caratterizzata da virtuosismi accecanti nè da eccessivi sofismi o metri dispari. Anche se questi ragazzi erano chiaramente interessati a spingere i confini della forma della canzone pop, queste sono due tracce melodiche con buone parti vocali ma che vengono erogate con l’aggiunta della raffinata grinta dei mellotron. Il capitolo finale Song To Absent Friends (The Island) è invece una struggente canzone dal ritmo lento scandito dal piano, che sembra agitarsi nel rammarico della voce di Moran (“Once I was the Dreamer, now my dreams are past and gone like the Waves along the Shoreline to the Isle that is no one”) .

I primi cinque brani sembrano essere nettamente i più forti, ma tutte le tracce dell’album sono a loro modo originali. Purtroppo, le Muse non hanno sorriso agli Spring se non per un breve momento in cui sono stati in grado di darci questo grande album: nonostante un tour di supporto ai Velvet Underground, la band si sciolse già nel 1972, dopo un tentativo fallito di creare un nuovo disco; Pick Withers troverà più fama coi Dire Straits mentre Pat Moran diventerà un produttore di discreta fama (Iggy Pop, Robert Plant).

I fan del lato orecchiabile del prog (Strawbs e Caravan in prima linea) saranno lieti di trovare un altro gruppo progressive britannico che ha effettivamente molti istinti-pop ed un placido song-writing. Una piacevole sorpresa!

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