Steve Hillage – L

“Dedicato a tutte le visioni ottimistiche del futuro”

Con una dedica del genere, non si può fare a meno di parlare di questo trascendentale L.

Steve Hillage fu il menestrello errante di Canterbury per antonomasia. Nato nei dintorni di Londra, il piccolo Stephen Simpson Hillage crebbe con i miti di John Coltrane e Jimi Hendrix, prima di formare nell’adolescenza la sua prima band (gli Uriel) con i compagni della City of London School. Trasferitosi in seguito all’università di Canterbury, Steve abbandonò inizialmente la musica a favore degli studi di storia e filosofia, finchè non conobbe i cugini dei Caravan Richard e Dave Sinclair, i quali tramite i loro contatti con la Decca, gli procurano un contratto solista. Dopo la brevissima parentesi con gli Arzachel e i Khan, Hillage decise di andare a suonare con l’amico Kevin Ayers in Bananamour, ma la prima vera occasione di notorietà internazionale arrivò coi Gong nell’intergalattica trilogia Radio Gnome Invisible.

Nel 1975, ancora indeciso sui suoi progetti futuri, Hillage decise di dedicarsi con la compagna Miquette Giraudy e molti altri musicisti dei Gong, al suo primo album solista Fish Rising, che per reazione osmotica assorbì gran parte dello stile di You. Giusto il tempo per un altro disco con i Gong orfani di Daevid Allen, Steve abbandonò poi Canterbury alla volta degli USA: pochi mesi prima, aveva infatti scritto una lettera al famigerato Todd Rundgren, che in risposta lo in41WAZlPoWsLvitò nella Grande Mela per incontrarlo, trovando subito un accordo per la produzione del secondo disco.

Registrato tra maggio e giugno del 1976 agli studi The Secret Sound di Woodstock (New York), l’album venne rilasciato nel settembre dello stesso anno dalla Virgin, con in copertina un retro-illuminato e stranamente rasato Steve Hillage (quando la maggior parte delle immagini degli anni Settanta lo vedevano con una folta barba!). Prodotto da Todd Rundgren, L ritrae Hillage mente si allontana musicalmente dai suoi giorni gonghiani, per intraprendere una strada stilistica tutta sua, all’alba di una Nuova Era. In primis, bisogna ricordare come Todd Rundgren fosse, in quel momento, uno dei più ricercati produttori rock oltre che un noto musicista, e la sua impronta distintiva si nota anche nell’entourage messo a disposizione con i suoi UtopiaRoger Powell (tastiere), Kasim Sulton (basso), John Wilcox (batteria), Don Cherry (strumenti a fiato) e Larry Karush (tabla) furono tutti personaggi singolari che andarono ad unirsi alla coppia ascetica Steve Hillage (chitarra, shehnai, synth) e Miquette Giraudy (voce). Il risultato è abbastanza fuori dal comune, tra brani inediti ed originali cover che si incastrano come un mistico puzzle nel mezzo di temi spaziali, sfumature psichedeliche e sapori canterburiani.

L’album si apre con una cover di Donovan, l’estraniante space-rock di “Hurdy Gurdy Man“, resa del tutto fuori contesto dall’accoppiata Rundgren-Hillage, un flusso cosmico che culmina poi nell’ “Hurdy Gurdy Glissando“, un’improvvisazione controllata sul tema principale, tra glissandi della chitarra, esoterici tabla e brucianti moog, in cui fluttua tutto lo spirito di Daevid Allen. Ci riporta poi con i piedi per testeve_hillage_1.5rra “Electrick Gypsies“, probabilmente la traccia seminale dei futuri lavori di Hillage (in particolare il successivo Motivation Radio), con un testo che ben illustra l’epitome della filosofia hippie, mentre dal Gange riemerge la spirituale “Om Nama Shivaya“, una traccia che si basa sul mantra per eccellenza della tradizione induista, qui recitato da Steve Hillage e Miquette Giraudy ed evocato da esotici tambura e dagli aneliti della batteria di Wilcox.

Contraccolpo alla solare suite del disco d’esordio, la schizofrenica “Lunar Musick Suite” venne incisa esclusivamente durante le fasi di luna piena: questo viaggio galattico comincia con un’atmosfera elettricamente carica, satura di riff minacciosi e pulsanti sintetizzatori, fin a quando le due entità entrano in collisione. Tuttavia, uno dei momenti più interessanti avviene circa a metà canzone, con la sublime incursione dell’imponente Don Cherry e della sua tromba scoppiettante, che si erge su un letto di faraonici synth e neandertaliani rulli di tamburo, nella costruzione di un climax infernale prima della riscoperta di un angolo di paradiso musicale. Chiude il disco la compulsiva “It’s All Too Much“, una cover acidificata dei Beatles dall’album Yellow Submarine: ancora una volta, il “pesce spaziale” Steve Hillage interpreta la canzone meravigliosamente a modo suo, facendo emergere nelle sue fasce sonore molti aspetti che non erano evidenti sull’originale di George Harrison.

Non si può negare che L nel suo insieme, così come il suo predecessore Fish Rising, si ponga come uno dei più grandi album del rock psichedelico, anche se molte delle canzoni non scorrono proprio lisce le une nelle altre, creando una ruvida sensazione nell’ascoltatore; bisogna peró ricordare come questo album non sia stato scolpito con lo scalpello della coerenza, ma piuttosto con quello dell’originalità di una Nuova Era, e la bellezza delle singole composizioni riesce comunque a lenire qualsiasi danno inflitto da questa mancanza di unità. Indubbiamente, L non condivide lo stesso livello di complessità di Fish Rising, ma anche nel suo essere più accessibile si può trovare tutto il meglio di Steve Hillage: forse non sarà mai ricordato come il miglior chitarrista della storia, ma sicuramente “Hillfish” rappresenta l’essenza pura dello space-rock.

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