Syd Barrett – The Madcap Laughs

The Madcap Laughs è il primo album solista di Syd Barrett dopo la sua estromissione dai Pink Floyd, e fu il risultato di molte sessioni di registrazione effettuate tra il maggio del 1968 ed il giugno del 1969, con quattro diversi produttori (Peter Jenner, Malcolm Jones e la coppia David Gilmour-Roger Waters): questo lavorare a più riprese è indubbiamente uno dei motivi per cui questo disco possiede una singolare aurea precaria, tra false partenze, forti stonature, accordi improponibili e canzoni a metà che testimoniano come “la testa matta che ride” si fosse allontanato anni luce dai canoni ritmici e melodici della musica rock.

Con la pubblicazione del primo rarissimo 45 giri di “Octopus/Golden Hair” (1969) Syd Barrett si spogliò ufficialmente dei suoi attributi da rocker, rivelandosi un’artista imprevedibile ed inaffidabile, a tratti impacciato, conservando la sua bizzarra canzone d’autore ma perdendo gran parte delle atmosfere space-rock dei primi Pink Floyd; solo la testardaggine di Malcom Jones, resposabile della Harvest, convinse Barrett e la EMI a portare a termine l’album, di fatto completato soltanto con l’ausilio degli ex compagni Gilmour e Waters. A supporto del cantante collaborarono in tempi diversi i tre Soft Machine (Robert Wyatt, Mike Ratledge e Hugh Hopper), il batterista Jerry Shirley (dagli Humble Pie), il bassista Willie Wilson e i due Pink Floyd Roger Waters e Richard Wright.

La copertina è dello studio Hi115582572pgnosis (che ha sigillato quasi tutti i capolavori dei Pink Floyd) con le fotografie dell’amico Mick Rock (autore del libro “Psychedelic Renegades”), realizzate all’interno dell’appartamento che Syd condivideva con il pittore Duggie Fields nel quartiere londinese di Earls Court: per questa istantanea, Barrett dipinse appositamente il pavimento della sua camera da letto a strisce arancio e viola, spostando tutti i mobili e le sue chitarre contro la parete; la ragazza nuda sullo sfondo del retro della copertina è conosciuta col nome di “Iggy the Eskimo”, per via dei suoi lineamenti eschimesi, ed era la ragazza del periodo di Syd. Il disco così composto venne pubblicato il 3 gennaio 1970 dalla Harvest, piazzandosi a malapena al quarantesimo posto delle classifiche inglesi ma raccogliendo critiche incoraggianti, compresa quella di David Bowie che ne riconobbe un’enorme influenza.

La prima canzone è la brontolante “Terrapin“, forse paradossalmente uno dei pezzi più scorrevoli e pseudo-melodici del disco, stretto in un blues ronzante che o ti ti spinge a fermare la musica o ti dà il benvenuto all’album. Il seguente jazz-rock di “No Good Trying“, registrato con i Soft Machine, si sviluppa con delle tastiere frenetiche nel background, accoppiandosi con un divertente testo d’amore ed una melodia altalenante dove si cerca, invano, una parvenza di struttura che però inciampa sul suo stesso disordine.
Il vero Barrett si manifesta però nella dichiarazione d’amore di “Love You“, che quasi si rifà a “Bike” di The Piper at the Gates of Dawn in una filastrocca honky-tonk con ancora i Soft Machine a sostegno del “Diamante pazzo”; si tratta di una canzone cabarettistica dove Syd cambia ritmo e metro all’interno di ogni strofa, ma che in qualche maniera riesce comunque a mantenere la melodia in movimento, anche nella conturbante sezione centrale e nel brusco finale.
Nell’acida “No Man’s Land” lo stato d’animo generale assume un tono più sinistro, con uno sporco basso di Jerry Shirley che domina questa “terra di nessuno”: circa a metà strada, però, le cose sembrano quasi avere una battuta d’arresto, con Syd che bofonchia frasi incomprensibili con una voce monotona. Ma forse una delle più eccentriche e disarmoniche canzoni dell’album è la straziante “Dark Globe“, totalmente approssimativa: la prima parte si sviluppa abbastanza calma, poi un agghiacciante Syd urla stanco: “Won’t you miss me, wouldn’t you miss me at all?“.
Here I Go” finisce invece per essere paradossalmente un piccolo capolavoro, portando in sè la vena dell’amico Kevin Ayers, in un momento vaudeville pieno di speranza che ricorda, sfigurata nella britannicitá, la vecchia passione di Syd per l’American Blues degli anni Cinquanta. La tentacolare “Octopus” è una rivisitazione di “Clowns and Juggler” (inserita nella raccolta postuma Opel), il prototipo della canzone folk barrettiana costruita su un ritmo zoppicante, uno sviluppo incerto e testi folli cantati con zelo disumano nel mezzo di varie citazioni, tra cui una sezione del poema “Rilloby-Rill” di Sir Henry Newbolt. Un testo favoleggiante (“Isn’t so good to be lost in the woods? Isn’t it good, so quiet there?“) per una composizione che lo stesso Barrett descrisse come “un miscuglio un po’ folle di parole, veramente, e poi il ritornello arriva e cambia il tempo della canzone mantenendo però il tutto unito“.
Il folk spettrale di “Golden Hair” trae la sua ispirazione testuale dalla poesia omonima di James Joyce (dalla raccolta “Musica da Camera”), con un supporto musicale scarso: solo una chitarra acustica ed alcuni effetti dei piatti aiutano Syd che canta con sfumature mistiche evocando un’aria solenne, simile ad un madrigale medievale. Una curiosità: inizialmente, la canzone doveva essere inserita nell’album The Piper at the Gates of Dawn dei Pink Floyd, ma venne scartata in quanto stonava con il resto delle tracce. 
L’umore minaccioso prosegue con Long Gone“, curato solo dal riff discendente di una deprimente chitarra acustica, un organo inquietante ed un urlante Syd che fa rizzare i capelli a Richard Wright sullo sfondoAnd I stood very still by the window sill and I wondered for those I love still, I cried in my mind where I stand behind the beauty of love’s in her eyes… She was long gone, long, long gone“.

Il tiro mancato di “She Took A Long Cold Look” viene sparato da Syd e dalla sua chitarra, tra continue pause e versi abbastanza dissonanti, in un vagabondaggio acustico che termina con Syd imbarazzato che senzenzia: “A bit short” (“un po’ corto”). La voce di un ingegnere del suono presenta la seguente Feel“, una traccia che si sente ancora un po’ “al dente”, cotta a metà tra accordi strazianti e parole imploranti. Tuttavia, il momento più bizzarro ed orribilmente inquietante dell’intero disco è la falsa partenza che conduce a If It’s In You“, con l’errore vocale di Syd nell’avvio del brano e le sue scuse; poi Barrett riesce a tirare fuori le note alte almeno fino a metà canzone, quando questa inizia ad abbandonare le sue rime curiose a favore di uno stonato volo pindarico. La conclusiva “Late Night” è una ballata morbida, con il fresco supporto della chitarra slide ed un testo introverso, molto toccante; si tratta del brano più vecchio di questo LP, con la sua base musicale originariamente registrata da Peter Jenner ad Abbey Road poco dopo la rottura ufficiale dai Pink Floyd ed un anno prima che il resto di queste tracce sono state registrate. Il testo desolatamente offre un piccolo scorcio nella fragile psiche di Syd: “Inside me I feel alone and unreal“… E con questa premonizione tutto ha fine. 

La sorella Rosemary ricordò con le seguenti parole l’amato fratello, di cui si prese cura durante la malattia: “Roger (nda, vero nome di Syd) poteva apparire un po’ introverso – o piuttosto assorto in sè – ma quando la gente lo definiva “un recluso” stava solo esternando il proprio disappunto. Lui sapeva che cosa volevano da lui ma non voleva certo darglielo. Roger era unico, loro non avevano il vocabolario giusto per descriverlo, così lo hanno etichettato. Se solo lo avessero visto con i bambini: i suoi nipoti e le sue nipotine, i bambini in strada – li poteva far ridere a crepapelle. Poteva parlarci a lungo e giocare con le parole in un modo che i bambini istintivamente apprezzavano, anche se a volte sconcertava gli adulti“.

Coloro che hanno familiarità con i concetti delle illusioni ipnagogiche o dello stato ipnopompico (due condizioni che si verificano sulla soglia tra la veglia ed il sonno) forse riconosceranno uno spirito affine a Syd Barrett nel poeta Ivor Cutler (presente su Rock Bottom di Robert Wyatt) che, come Syd Barrett, cercò di riprendere quei momenti dell’infanzia in cui il filtro della razionalità adulta non ha ancora preso il controllo, per godere appieno di idee disinibite ed incontaminate, anche spaventose alle volte, recuperabili soltanto nella propria fonte inconscia delle manifestazioni oniriche.

Questo album non è privo di difetti, ovviamente: alcune canzoni sono veramente dolorose da sentire, per quanto rappresentino chiaramente la battaglia persa di Syd contro la realtà. Dopo il secondo album omonimo (Barrett, 1970), alla fine di quell’anno Barrett si ritirò dalla scena discografica, e per certi versi anche dalla vita stessa, fino alla morte per un tumore al pancreas avvenuta nel 2006.

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