The Beach Boys – Pet Sounds

Tra il 1962 e il 1965, con la maggior parte dei membri della band ancora adolescenti, i Beach Boys si trovavano nel mezzo di un successo planetario, e quando nel 1966 uscì Pet Sounds nessuno si sarebbe aspettato una variazione così radicale della ricetta vincente; tutto iniziò con un attacco di panico in aereo e Brian Wilson, stressato dai logoranti tour, che decise di tornare in California, concentrando tutta la sua attenzione sulla scrittura e sulla registrazione: così, mentre i suoi compagni ciondolavano tra i palchi dell’Estremo Oriente, lui aveva reclutato l’acclamato paroliere Tony Asher per aiutarlo a completare “il più grande album mai realizzato“. Il duo scrisse a quattro mani alcune delle più belle canzoni di tutto il catalogo Beach Boys, canzoni che però erano ben lungi dallo schema consolidato della hit (disegnato su un piano cartesiano di automobili lussuose, belle ragazze e assolate spiagge californiane), ed arruolarono infine oltre 50 musicisti nelle diverse sessioni di registrazione, con strumenti provenienti da tutto l’universo musicale. Anche se questo Pet Sounds sarebbe stato un fallimento commerciale rispetto al fenomenale successo degli ultimi anni, ci avrebbe poi pensato la Storia a consacrarlo come uno dei migliori dischi rock di sempre. Se non IL migliore.

Pet Sounds è l’undicesimo album dei Beach Boys, rilasciato nel 1966 dalla Capital, mixato in mono e non in stereo perchè Brian Wilson, alla ricerca della perfezione sinfonica ma sordo dall’orecchio destro sin dall’infanzia, non poteva apprezzare la stereofonia. Fuori dalla nomea del surfing-pop, gran parte del disco è stato composto con la partecipazione dei The Wrecking Crew, i più grandi “session-men” del periodo, sotto l’egida di Brian Wilson responsabile della produzione musicale. Quando la band ritornò dal tour, trovò di fatto un album quasi completo che richiese praticamente soltanto le loro voci per essere sigillato: questo causò non pochi attriti all’interno del gruppo, in particolare Mike Love (autore di molti testi della band nei loro primi anni) non era molto entusiasta, arrivando a schernire il progetto come “la musica dell’ego di Brian“, mentre gli altri membri erano preoccupati di perdere il loro pubblico, con l’abbandono drastico di una struttura rinsaldata nel corso degli anni (Al Jardine e Dennis Wilson riferirono infatti di avere avuto enorme difficoltà ad abdicare la ritmicità dei primi Beach Boys).

In questo disco (che qualche fantasioso critico considera anche il primo concept-album) ci sono 13 canzoni che parlano di amore, solitudine e abbandono: è interessante notare però che ciò che contraddistingue Pet Sounds da qualsiasi altro album che l’ha preceduto non sono i testi ma la sua elaborata produzione. Dal punto di vista sonoro, per erigere il suo “Wall of Sound” Brian Wilson trasse ispirazione dal produttore Phil Spector (che gli aveva insegnato come “due strumenti combinati insieme danno un terzo suono nuovo“) ma il giovane Beach Boy non volle semplicemente emulare il suo mentore, ma trovare una sua peculiare musicalità: gli strumenti rock più tradizionali come la chitarra ed il basso sono stati raddoppiati e miscelati con effetti eco, mentre spicca l’uso del theremin per la prima volta nella storia del rock. Brian decise di utilizzare anche oggetti non convenzionali, come campanelli delle biciclette, fischietti, suoni di treni, lattine e cani che abbaiano come strumenti di accompagnamento: il risultato è stato un vero e proprio testamento musicale del genio di Brian Wilson come scrittore, compositore e produttore. Bisogna sottolineare comunque che il vero catalizzatore di Pet Sounds fu senza dubbio l’album dei Beatles Rubber Soul (dicembre 1965), scosso da una unità stilistica colma di brani originali che fecero entusiasmare Brian, a differenza della prassi standard di riempire i dischi con pochi successi commerciali e molti pezzi “filler”.

La maggior parte delle canzoni del Pet Sounds sono state composte durante l’inverno del 1965/66. Mike Love è stato co-accreditato come autore soltanto su alcuni brani, in particolare l’apertura “Would not It Be Nice”, “I’m Waiting for the Day” e “I Know There’s an Answer”, che era stata originariamente costruita come una cavalcata lisergica dal titolo “Hang On to Your Ego” e riscritta su insistenza di Love che temeva per i suoi riferimenti alla droga ritenuti  fin troppo espliciti (nelle credenze popolari si pensava infatti che l’LbeachboysSD distruggesse l’ego).

Per quanto concerne il titolo, ci sono molte teorie che circolano circa la sua origine: nella sua autobiografia Brian Wilson asserì che questi fu ispirato dai commenti negativi fatti da Mike Love al materiale, dopo una seduta di registrazione particolarmente litigiosa. Secondo Wilson, Love avrebbe affermato: “Who’s gonna hear this shit? The ears of a dog?“. Un’altra posizione sostiene che il titolo era anche una sorta di “omaggio” al produttore Phil Spector, perché le parole “Pet” e “Sounds” portano le sue medesime iniziali.

Anche Mike Love diede una sua diversa versione circa la genesi della sigla: “Eravamo in piedi nel corridoio di uno degli studi di registrazione, il Western o il Columbia, e non avevamo ancora un titolo per l’album. Avevamo fatto delle foto allo zoo e c’erano dei versi di animali sul disco, e quindi pensammo, beh, è la nostra musica preferita del momento, così dissi: Perché non lo chiamiamo “Pet Sounds”?“. Ciò che è invece certo è che l’autore della foto di copertina fu George Jerman, coi Beach Boys intenti a sfamare un gruppo di caprette dello zoo di San Diego.

Data la vastità delle recensioni su questo osannatissimo album, mi limiterò a riportare piuttosto alcune curiosità. Sottolineo innanzitutto che la “sinfonia tascabile” di “Good Vibrations” era originariamente destinata ad essere inclusa nel disco ma con sorpresa di tutti fu tagliata fuori da Brian Wilson: rilasciata come singolo nell’ottobre del 1966, la canzone scalò individualmente le classifiche musicali di mezzo mondo.

La clamorosa aria di sortita è “Wouldn’t It Be Nice“, che imposta un ritmo carnascialesco rotto dalla voce di Brian Wilson, malinconica e serafica nel medesimo istante (“Wouldn’t it be nice if we were older, then we wouldn’t have to wait so long”); i Beach Boys all’unisono forniscono le complesse armonie, rendendo questa traccia una sorta di ponte tra i bei tempi della surf-music e questa nuova frontiera di arte rupestre e riflessiva: per creare “il muro del suono” Wilson qui utilizzò una miriade di strumenti, tra cui percussioni, due pianoforti, due fisarmoniche, tre bassi, tre chitarre, una batteria e quattro corna. Ripercorre a ritroso la giovinezza con un altro spirito “You Still Believe in Me“, la prima canzone che Asher stese per l’album su uno schizzo di un precedente lavoro di Wilson chiamato “In My Childhood“: proprio da questo progetto deriva la lamentosa cantilena di un amante adolescente, stesa tra spettri di “Glockenspiel” ed un trillo di un campanello di bicicletta che riportano alla mente i classici suoni dell’infanzia.

L’atipica “That’s Not Me” è abbastanza minimalista rispetto alle altre tracce, con le voci soliste di Mike Love e Brian Wilson e l’intera band a suonare la maggior parte degli strumenti (Brian Wilson all’organo, Carl Wilson alla chitarra, Dennis Wilson alla batteria e Al Jardine al tamburello). Al contrario Don’t Talk (Put Your Head on My Shoulder)” è una canzone più affranta, eseguita interamente da Brian Wilson e dai musicisti in sessione; il bassista Carol Kaye ed il batterista Hal Blaine hanno avuto un forte impatto anche sulla seguente “I’m Waiting for the Day” che contiene un ritmo costante in contrasto alle fluttuazioni nostalgiche del testo (“I’m waiting for the day, when you can love again“).

La strumentale “Let’s Go Away for Awhile” era originariamente stata registrata come base ma alla fine è stato deciso di pubblicarla senza voci (stessa sorte avverrà per la title-track): si tratta di un pezzo di morbido jazz con marimba e chitarra acustica a tenere insieme i diversi strumenti dell’orchestra, tra cui violini, pianoforte, sax e oboe; originariamente intitolata “The Old Man and the Baby“, Brian Wilson dichiarò che questa canzone è stata la più soddisfacente della sua produzione. La celebre “Sloop John B” venne invece suggerita da Al Jardine ad un reticente Brian, ed era già stata registrata durante la precedente estate del 1965: si tratta di una canzone popolare caraibica, risalente agli inizi del XX secolo, incisa col titolo “The John B. Sails” da Carl Sandburg nel 1927; a terminare la prima parte è proprio questo brano leggero, con una disposizione costruita costantemente tra l’enfasi della strumentazione e la complessa stratificazione vocale. Brian Wilson, che non era un grande appassionato di musica tradizionale, cambiò alcune parole del testo, dandole un taglio più psichedelico e testando ogni membro del gruppo per le voci soliste, scegliendo in ultima analisi se stesso e Mike Love.

La seconda metà inizia con due capolavori: la superba “God Only Knows“, viene rappresentata dalla voce eterea del fratello più giovane Carl Wilson; famosissima è invece l’introduzione con i corni francesi ed il clavicembalo che scorre in tutta la sezione, anche se “I may not always love you è davvero un modo insolito per iniziare una canzone d’amore! Due curiosità: questo fu uno dei primi brani commerciali ad utilizzare la parola “Dio” nel titolo, una decisione amaramente ponderata da Wilson e Asher che ne temevano un boicottaggio. Paul McCartney, inoltre, più volte nominò “God Only Knows” come la sua canzone preferita di tutti i tempi, ammettendo che “Here, There And Everywhere” dei Beatles era stata ispirata proprio da questa traccia, con lui e John Lennon che dopo averla sentita ad una festa tornarono veloci a casa di Lennon per scriverla.

La sagace “I Know There’s an Answer” fu una delle prime tracce registrate, in un’atmosfera nettamente più ottimista rispetto al suo predecessore, contenendo, tra le altre, spruzzate distinte dell’armonica di Tommy Morgan ed una interessante sezione di banjo; influenzata da uno dei sempre più frequenti viaggi mentali di Brian Wilson con l’LSD (“They trip through their day and waste all their thoughts at night”), nelle bonus-track è presente la versione originale non epurata da Mike Love, “Hang on to Your Ego“. 

La disillusa “Here Today” si fa strada con arrangiamenti più convenzionali e conservatori, contenendo al suo interno anche una pausa strumentale orchestrale influenzata dal compositore Johann Sebastian Bach ed un testo malinconicamente consapevole (“Love is here today and it’s gone tomorrow, it’s here and gone so fast“). Ma è I Just Wasn’t Made for These Times” il manifesto più autentico di Brian Wilson su questo album: il testo riguarda la perdita dell’innocenza e, in misura minore, il suo ruolo in evoluzione nella band, riflettendo su tutti coloro che pensavano che fosse stato un pazzo ad aver rivoluzionato il suono dei Beach Boys (“Sometimes I feel very sad – can’t find nothin’ I can put my heart and soul into – I guess I just wasn’t made for these times“).

La title-track “Pet Sounds” è il secondo brano strumentale, guidato questa volta dalle singolari percussioni che Ritchie Frost produsse percuotendo due lattine vuote di Coca-Cola, dietro suggerimento di Wilson: questa traccia era stata originariamente chiamata “Run James Run” ed era destinata ad essere utilizzata come tema per un film di James Bond. L’intima “Caroline, No” serra in ultima istanza l’album, estendendo la nostalgia per l’innocenza perduta; il brano è stato apparentemente dedicato ad un amore liceale di Wilson, anche se vi sono dei riferimenti alla moglie sposata poco prima ed alla dolorosa separazione di Tony Asher dalla fidanzata. In principio intitolata “Carol, I Know”, venne rinominata quando fu lanciata come singolo nei primi mesi del 1966 per un malinteso tra il paroliere Asher e il più vecchio dei fratelli Wilson: la canzone (ed il disco) termina con il suono di un treno e di due cani che abbaiano furiosamente, dopo aver utilizzato una serie di strumenti inusuali, tra cui il clavicembalo, l’ukulele, il flauto, il theremin ed il vibrafono, dandole una striatura quasi jazz in collaborazione, ricordiamo, con alcuni dei migliori turnisti di Los Angeles (Glen Campbell alla chitarra, Carol Kaye al basso e Hal Blaine alla batteria su tutti)Brian Wilson ha registrato questo pezzo senza il resto del gruppo, per questo sul singolo esso è indicato come un’opera solista: i cani che si sentono in conclusione sono proprio i suoi, Banana e Louie, portati in studio per l’occasione… ed un album che si intitola Pet Sounds, d’altronde, non poteva che concludersi così.

Pet Sounds ha segnato al tempo stesso l’apice della produzione artistica dei Beach Boys ma anche, al tempo stesso, l’inizio del loro inevitabile declino: Brian Wilson tentò di seguirne ossessivamente la strada nel 1967 con SmiLe, un progetto destinato ad abortire soprattutto a causa dei suoi crescenti problemi psichici.
Al perenne dilemma “Beatles o Rolling Stones?“, io rispondo con uno scuotimento del capo ed un risoluto: BEACH BOYS!!
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