The Nice – The Nice

In una valle tra musica rock, jazz e classica, alla sorgente del progressive inglese: ecco l’ecosistema dei The Nice.
Siamo al terzo lavoro della band britannica nella cui formazione spicca senza dubbio il nome di Keith Emerson (che in seguito diede vita al celeberrimo omonimo trio con Lake e Palmer), accompagnato qui da Lee Jackson al basso e alla voce (curiosamente all’anagrafe anche lui Keith, ma cambiò il suo nome!) e Brian Davison alla batteria.
La loro storia nasce quasi per caso: nel 1967 il produttore Andrew Loog Oldham (titolare della neonata etichetta Immediate e futuro manager della band) deve allestire una backing band per il tour inglese della cantante americana P.P. Arnold (una scoperta di Mick Jagger); furono così scelti Emerson e Jackson assieme al chitarrista David O’List (poi Roxy Music, fra le tante). Al termine del tour decisero di formare una propria band e di proseguire per la loro strada, inserendo nel nucleo originale il batterista Brian Davison; dopo il primo album, però, rinunciarono alla chitarra e continuarono la loro carriera come trio.
Fu un’esclamazione ripetuta spesso da Steve Marriott degli Small Faces a suggerire il nome alla band (“Here comes the nice”, che suona in italiano più o meno come: “e adesso viene il bello”), che rimpiazzó lo scomodo “The little People” (troppo simile al nome di una congregazione religiosa del periodo).

Questo terzo album (dopo The Thoughts of Emerlist Davjack e Ars Longa Vita Brevis) venne registrato solo per metá ai Trident Studios di Londra e riscosse un discreto successo in Inghilterra (n.3 della classifica), venendo rilasciato anche negli USA ma con una diversa nomenclatura (Everything as nice as Mother makes it) in seguito ad un cambio di etichetta.
L’album si compone di sole 6 tracce ma la scarsità di brani compensa con la moltitudine di idee e richiami che troviamo in essi. Apre “Azrael Revisited“, la traccia psichedelica con qualche eco di Rachmaninoff, apre le danze… e sono subito palesati il carisma di Emerson e l’indirizzo musicale scelto.
La celestiale “Hang on to a Dream” è una versione jazz della canzone di Tim Hardin, una canzone molto intima e agli antipodi della seguente “Diary of an Empty Day“, con un testo irriverente e confuso, quasi fastidioso.La sincopata suite di 9 minuti “For example” è invece un filato dalla trama jazz in cui spicca Emerson tra canti gregoriani, rimandi alla “Norwegian wood” dei Beatles e atmosfere decisamente prog.
Le ultime due tracce sono incisioni live dal Fillmore East Festival di New York: “Rondo ’69“, rivisitazione del “Blue Rondo á la Turk” di Dave Brubeck già incisa sul primo album e “She belongs to me“, cover snaturata di Bob Dylan, estesa teatralmente fino a 12 minuti.

Un album non privo di difetti ma di indubbia importanza nella nascita del progressive inglese e nella carriera di Keith Emerson.

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