The Smiths – Strangeways, Here We Come

Prima di stendere le seguenti righe, mi preme sottolineare che – se non si fosse già  capito dall’esiguità della sezione relativa a quel decennio – per me gli anni Ottanta hanno segnato il Medioevo musicale (con Axl Rose e Duran Duran re di quelle pacchiane barbarie!) ma qualcosa si salva. Qualcosa, sì sì. Ogni tanto nel buio di un’epoca si intravede il fioco barlume di una luce.

Strangeways, Here We Come è il quarto ed ultimo album degli Smiths, un cupo canto del cigno registrato presso la Wood Hall di Beckington ed uscito nel settembre del 1987 per la Rough Trade. Il gruppo è ovviamente polarizzato dalla figura ieratica di Morrissey, un personaggio talmente estremo che non suscita indifferenza, un eccentrico paroliere che idolatra Oscar Wilde e ha un talento innato a dire le cose giuste al momento sbagliato (e viceversa), su ogni argomento. Il suo canto, inoltre, è selvaggiamente virtuosistico e riconoscibilissimo, ricco di gutturali ringhiati e di urla sornione. I suoi testi sono intrisi di misticismo ed ambiguità (anche sessuali!). Ma gli Smiths non erano solo Morrissey: avevano una magnifica sezione ritmica nel bassista Andy Rourke e nel batterista Mike Joyce ed il polistrumentista Johnny Marr è stato responsabile di almeno la metà della gloria e dell’inventiva degli Smiths.

La copThe-Smiths-Strangeways-Here-300768ertina è una istantanea presa dal film “La Valle dell’Eden“, con un primo piano di Richard Davalos intento a guardare James Dean (un altro idolo di Morrissey, su cui scriverà anche un libro). Interessante notare che la prima scelta non era stata però questa: avevano infatti richiesto i diritti per un’immagine di Harvey Keitel nel film di Martin Scorsese “Chi sta bussando alla mia porta?“, ma l’attore negò il consenso alla band.

L’album prende inoltre il suo titolo dal famigerato carcere di Manchester, la Strangeway Prison, mentre parte dell’inciso dopo la virgola è tratto da una frase da “Billy il bugiardo” (“Borstal, Here We Come!“), un romanzo di Keith Waterhouse divenuto in seguito materiale cinematografico. Sull’edizione in vinile è incisa la linea: “Guy Fawkes was a genius” (per chi non lo sapesse Guy Fawkes fu uno dei personaggi coinvolti nella Congiura delle Polveri del 1605, in cui tentarono di far esplodere la Camera dei Lord e uccidere in un colpo unico i membri del Parlamento ed il re Giacomo I…. Ok, ok, forse mi sono allungata… Facciamo che è quello della maschera di V per Vendetta!!).

L’estrosa cavatina “A Rush and a Push and the Land Is Ours ha inizio con una melodia old-style raccapricciante e Johnny Marr sul sintetizzatore; subito dopo arriva la voce di Morrissey, distorta ed inquietante, che afferma di essere “il fantasma di Troubled Joe” (tratto da “Carry On Jack”, un film del 1963 di Gerald Thomas). Con un recitato-spettrale, un drammatico inizio, tocchi di xilofono ed una fioritura in una smorfiosa performance vocale, a mio avviso è probabilmente la migliore traccia dell’album. I Started Something I Couldn’t Finish”   annuncia invece sua presenza con qualche sporco accordo di chitarra elettrica prima che la band al completo decolli all’unisono: si tratta di una pista quasi rockabilly, intrisa di spirito autoironico e che sarà il secondo dei quattro singoli prelevati da questo album. Il brano presenta inoltre un outtake, verso la fine della traccia, in cui si sente chiaramente Morrissey chiedere al produttore Stephen Street: “shall we do that one again?”. La funesta Death of a Disco Dancer” vede Morrissey al piano suonare una melodia che porta alla mente la beatlesiana “Dear Prudence” che fornica con una qualche entità  vampiresca: una sottile venatura ritmica di basso e batteria striscia dietro alle sue note ed alla fine Johnny Marr esplode con la sua chitarra in un connubio intrigante di “love, peace and harmony?“.

La sconcertante “Girlfriend in a Comaricalca con un battito reggae il tipico umorismo tragicomico di Morrissey, guardando attraverso gli occhi di un ragazzo la triste situazione della sua dolce metà in coma, ma questi non si comprende se sia più sconvolto o divertito. Una curiosità: la copertina di questo primo singolo rilasciato presenta l’immagine della scrittrice britannica Shelagh Delaney, autrice di “A Taste of Honey” (un’opera che ispirò Morrissey in diversi brani, tra cui “Hand in Glove”e “Reel Around the Fountain”) .

Stop Me If You Think You’ve Heard This One Beforeè un altro bel momento; la casa discografica aveva originariamente deciso di promuoverla come singolo nel Regno Unito, ma venne percepita come inappropriata in seguito alla strage di Hungerford (nel Berkshire), dove il ventisettenne Michael Ryan sparò ed uccise 16 persone (i testi contengono infatti un riferimento agli omicidi di massa che potevano essere a tal fine interpretati). Questa canzone è scritta dal punto di vista di un ubriaco che dice alla moglie bugie sempre più assurde, nel tentativo di rispondere per la sua assenza: è un classico tour-de-force alla Smiths, inondato di testi ambigui e danneggianti melodie pop che si fanno largo ondeggiano i fianchi nella testa dell’ascoltatore. La successiva Last Night I Dreamt That Somebody Loved Meè, a detta di Morrissey, la migliore canzone degli Smiths. La versione dell’album inizia con 2 minuti di frastuono tratto dallo sciopero dei minatori del 1984/1985 (un audio fornito dalla BBC), accompagnato da un assolo di pianoforte che sembra non finire mai, per poi sentire Morrissey gemere: “Last night I dreamt that somebody loved me. No hope, no harm, just another false alarm“. Improvvisamente, in seguito, la canzone scoppia con svettanti tastiere orchestrali e Morrissey che intona le parole del titolo: questo è davvero un gran pezzo, imbevuto di nostalgia e di stanchezza.

L’antipatica “Unhappy Birthday” offre ciò che il titolo promette: una canzone in lacrime, che vede Morrissey trasferire in musica una situazione al limite della nevrosi freudiana. E’ un brano che non soddisfa però lo stesso Marr, il quale sentiva che il testo non combaciava con la linea melodica e, devo dire, è un contrasto umorale che si percepisce. Pur essendo una canzone riempitiva, rimane estremamente crudele, basata sul sempiterno topos del “sedotto e abbandonato” (“Loved and lost and some may say, when usually it’s nothing surely you’re happy it should be this way“).

Paint a Vulgar Picturenella sua toccante grevità raffigura l’avidità dei dirigenti della casa discografica e di come ardentemente tramano per sfruttare la morte di una delle loro stelle. Una canzone degente e divertente allo stesso tempo, come la maggioranza del repertorio Smiths. Morrissey qui riutilizza un famoso commento attribuito a Geoff Travis (manager della Rough Trade) “You Just Haven’t Earned It Yet, Baby” e proprio questi si dimostrò contrario al brano perché, a detta del cantante, “credeva che fosse una lettera personale a lui indirizzata”.Il burlesque di “Death at One’s Elbowestrae invece il suo testo dalle vicende del drammaturgo inglese Joe Orton, morto assassinato nel 1967 dal suo amante Kenneth Halliwell, che lo colpì con diverse martellate alla testa per poi suicidarsi; l’espressione usata nel titolo “morte a portata di mano” è annotata inoltre nella pagina del giorno prima del funerale della madre di Orton. La seguente “I Won’t Share You” si toglie il pesante abito nero, vestendosi semplicemente con Marr all’arpa ed un leggero basso di Rourke, in un tessuto ritmico traspirante per il cantato diafano di Morrissey. È un pezzo stranamente profetico che chiude l’ultimo album della band, prima della definitiva rottura: il testo ha infatti tutte le sembianze di un addio a Johnny Marr (“I won’t share you with the drive and ambition, the zeal I fell this is my time“) ma anche di un affettuoso arrivederci (“I’ll see you sometime, I’ll see you somewhere darling“). E’ una canzone dal testo davvero ambiguo e quindi esposto a svariate congetture, una delle quali sostiene che all’interno ci siano dei riferimenti ad Angie, moglie di Marr, e di un triangolo amoroso tra la coppia e lo stesso Morrissey (la donna viaggiava sempre in tournée con gli Smiths).

Registrato quando il rapporto tra Morrissey e Johnny Marr stava ormai iniziando a sgretolarsi, Strangeways, Here We Come è l’album che i due diranno in seguito essere paradossalmente il loro preferito, anche se rispetto alla precedente produzione appare leggermente ombreggiato e meno qualificato. Amo tutti e quattro gli album in studio, quindi non posso dire se questo sia migliore o peggiore rispetto agli altri tre. Quello che posso dirvi è che sia che appreziate gli Smiths sia che non li conosciate affatto, sicuramente questo disco di addio non vi lascerà indifferenti.  

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