The Soft Machine – The Soft Machine

Anno 1966, il nucleo originario dei Wilde Flowers si era ormai sgretolato. Nella filiale canterburiana di Dejá, centro beat per eccellenza nell’isola di Maiorca, si trovava Daevid Allen che aveva da poco fondato i Mister Head con Kevin Ayers (basso), Robert Wyatt (batteria e voce) e Mike Ratledge (tastiere), quando la stravagante Lady June gli presentó Wes Brunson, un milionario americano con la smania del rock: fu col finanziamento di quest’uomo che la band decise di ripartire alla volta di Londra, nell’appartamento della madre di Wyatt a Dalmore Street. Dopo l’ennesimo cambio di nome (Bishops of Canterbury), il gruppo trovó la propria sigla definitiva nel titolo (The Soft Machine) di un romanzo dell’amico di Allen, tale William Burroughs. La Macchina Morbida si mise subito in moto, coi suoi quattro ingranaggi che ne bilanciavano le diverse funzionalità: allo spirito pop del fragile Kevin Ayers si sommava il classicismo del virtuoso Mike Ratledge, con Robert Wyatt che scomponeva il risultato così ottenuto in fattori jazz che venivano sublimati dall’esoterismo-freak del folle Daevid Allen.

I Soft Machine furono indubbiamente il gruppo più importante ed influente della scena di Canterbury: il pubblico di allora era nello stesso tempo sconcertato ed attratto dal loro atipico sound che centrifugava jazz, psichedelia, classicismo e improvvisazione in un’unica messinscena dada-rock (come li definì la critica). Non a caso la band ricevette una menzione speciale da parte del Collegio di Patafisica per il suo spiccato gusto per l’avanguardia e per la partecipazione ad un allestimento dell'”Ubu incatenato” di Alfred Jarry.

Con questa line-up la band registrò diversi demo sotto produzione del redivivo Giorgio Gomelsky, che sarebbero perMI0001896961ò stati rilasciati solo nel 1972 (Jet-Propelled Photographs, BYG Record).

L’idillio durò soltanto un paio di stagioni perché nel 1968, per questioni burocratiche, il gruppo dovette privarsi del frontman Daevid Allen, rimasto alla frontiera francese a formare i futuri Gong: mutilato, il trio superstite partì per un tour americano con Jimi Hendrix, che si concluse di fatto anche con la defezione di uno stanco Kevin Ayers.

Ma facciamo un passo indietro, senza giocare a ping pong con la storia. Questo primo LP eponimo (Probe, 1968) è il frutto di tre anni di stravaganti improvvisazioni, in cui non è presente Daevid Allen ma se ne può percepire ancora lo spirito; la produzione fu duplice: Chas Chandler (quello di Hendrix) seguì la band nel primo abbozzo effettuato nel tour americano del suo pupillo, mentre Tom Wilson (Frank Zappa, Velvet Underground, John Coltrane) sigillò il progetto, non interferendo col natural decorso dell’espressività dei musicisti (anzi, disse Ayers che “passava le giornate al telefono con la sua ragazza”): lasciata a se stessa, la Macchina Morbida mise su nastro una serie di canzoni a presa diretta, coi dovuti errori del caso. Il disco è una miscela di psichedelia, blues, jazz e rock, condito con homour britannico, testi surreali ed una scorza di Dada: tutto quello che sarebbe diventato un marchio di fabbrica delle svariate band di Canterbury. Una caratteristica interessante è la presenza di incalzanti “riff vocali” (soprattutto a causa del fatto che Kevin Ayers era passato dalla chitarra al basso): alcuni, infatti, dei riff di solito interpretati dalla chitarra vengono trasferiti alle voci, dando alla band un suono immediato e peculiare, complice anche la voce mai lineare di Wyatt. Un’altra caratteristica presa in prestito dall’arte moderna è la tecnica del “collage”, ovvero piccoli frammenti sonori che vengono posti insieme in una suite: le note di copertina dell’album descrivono perfettamente lo scopo della musica dei Soft Machine, ovvero porre la mente in un viaggio, come fosse una qualche forma di stimolazione cerebrale.

L’inizio è in pompamagna: “Hope for Happiness secerne tutto lo spirito di Kevin Ayers, battezzandosi con una rullata di batteria e Robert Wyatt che canta in un tempo spezzato sopra un finto blues psichedelico; in questo brano abbiamo difatti il primo scorbutico incontro con le percussioni violente di Wyatt, mentre l’organo frizzante di Ratledge giace su uno sfondo dissonante e letargico, scalfito soltanto dal ritornello ripetitivo, che è in qualche modo così intriso di spirito britannico che può facilmente qualificarsi come l’equivalente avanguardistico di una qualsiasi canzone dei Kinks.
La strumentale “Joy of a Toy” viene accompagnata dal basso di Ayers attraverso una batteria fortemente echeggiata. L’assolo di chitarra, il basso e gli effetti che ronzano intorno ad essi forniscono un background peculiare in diversi strati: è una traccia molto rappresentativa, che non a caso sarà rilasciata nel 1968 per promuovere questo album di debutto, e sarà anche scelta da Kevin Ayers come titolo per il suo primo disco solista.
Hope for Happiness (Reprise)” riprende in un breve cameo la strofa ed il ritornello iniziale mentre la traccia seguente, Why Am I So Short?“, caratterizza ad hoc lo stile di canto di Wyatt, che sparge vocalmente il testo in maniera passiva: eppure c’è qualcosa di molto umano ed accattivante nella sua voce sottile e ho sempre trovato che fosse curiosamente efficace nel suo minimalismo, specialmente polarizzata in questo numero semi-jazz che conduce direttamente alla jam di So Boot if at All“, una disordinata avanguardia che vede pure un inedito Ayers al pianoforte.

A Certain Kind” è di gran lunga la canzone più convenzionale del disco, una dolce ballata scritta da Hugh Hopper dotata di una progressione coinvolgente e di una melodia identificabile, raschiata dalla sezione struggente dell’organo di Ratledge con un conseguente accumulo di pathos sul finale. Save Yourself” vede, d’altro canto, un ritorno fulmineo alla psichedelia, a cui fa seguito una deviazione nella zona crepuscolare della silenziosa “Priscilla“,  che pur si fa intendere senza bisogno di parole. 
La sarcastica “Lullabye Letter” ricorda vagamente lo stile di Syd Barrett coi primi Pink Floyd, con organo e percussioni accentuati in maniera maniacale: qui i Softs mostrano la loro abilità nel creare incredibili melodie pop pur mantenendo quel bordo di psichedelica e sperimentazione che rende questo album più che accessibile. Sarnonico, infine, il testo: “I’ve got something to tell you. Hold on, I wanted to thrill you, it’s nice, makes you feel better: it’s called a Lullabye Letter”.
La farneticante “We Did It Again” è una versione ridotta di un brano di quattro parole, che doveva durare ben 40 minuti!; si tratta di una delle più note canzoni dei Soft Machine, guidata dalla reiterazione di un ritmo ipnotico e con un riff che pare preso in prestito da “You Really Got Me” dei Kinks. La breve frase del titolo viene ripetuta ed incollata saldamente con l’attack sulla sezione strumentale, in un allestimento scenico non dissimile dalla maniera del Krautrock (Faust su tutti).
La coincisa “Plus Belle Qu’une Poubelle” è un interludio fugace guidato dall’organo e che sfocia direttamente in Why Are We Sleeping?“, la pista più lunga in previsione di una drammatica chiusura. La narrazione è una parte interessante di questa strana traccia psichedelica, con un testo incredibilmente allucinogeno ispirato ad Ayers dal mistico armeno Georges Gurdjieff (“It begins with a blessing, it ends with a curse. Making life easy by making it worse. “My mask is my master”, the trumpeter weeps but his voice is so weak, as he speaks from his sleep, saying: “Why, why, why… Why are we sleeping?“) e la voce di Kevin che si alterna al coro mistico delle Cake.  
La brevissima “Box 25/4 Lid” chiude infine il coperchio, un’aggiunta all’ultimo minuto con l’ospite Hugh Hopper al basso ed un vago riverbero paranoico nell’aria. 

Di fatto, quando esce The Soft Machine il gruppo è ormai già sciolto ma è però costretto a riunirsi per rispetto dei vincoli contrattuali, in seguito anche all’inaspettato ingresso nella top 40 USA; al trio originale si aggiunge il talentuoso Hugh Hopper che viene promosso ufficialmente da rodie a bassista nel secondo disco, rilasciato nel 1969.

Consiglio questo album a chi è spaventato dalla fama titanica dei Soft Machine ma si vuole avvicinare in punta di piedi al suono della band; in questo disco la musica è una miscela perfetta di rock classico, psichedelia e jazz, senza troppi sofismi o improvvisazioni: nessuna delle tracce, inoltre, dura troppo a lungo per poter stufare ma, se proprio vi dovesse capitare di averne abbastanza, subentra puntuale il pezzo successivo in vostro aiuto.

Che altro dire? Sicuramente un album da scoprire per i neofiti canterburiani ma anche un disco da rivalutare per i vecchi amanti di questa intramontabile scena.

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