The Soft Machine – Third

Third è un’opera fondamentale, un album epico per molti motivi: esso venne rilasciato nel giugno del 1970 dalla CBS, in due LP che contaminarono irrimediabilmente i canoni del rock con la sperimentazione del jazz. Iniziamo a sottolineare che ogni canzone possiede un tempo di esecuzione superiore ai 18 minuti: se i primi due album erano stati spinti da Kevin Ayers e Robert Wyatt, questo terzo disco vide il dominio assoluto del tastierista Mike Ratledge (responsabile della metà delle composizioni), uno degli eroi mai celebrati del progressive, ed il suo organo è indubbiamente il marchio di fabbrica di questo album. 

Risulta difficile credere che gli autori di q51UcSiHFsVLuesto doppio disco siano gli stessi che pubblicarono i loro primi due album, pieni di melodie psichedeliche e patafisiche  (The Soft Machine e Volume Two); il merito fu anche di una folta schiera di ospiti che si unì al trio: Elton Dean (sax alto), Rab Spall (violino), Lyn Dobson (flauto, sax soprano, Nick Evans (trombone) e Jimmy Hastings (flauto, clarinetto). Posso solo immaginare le espressioni facciali dei vecchi fan dei Soft Machine quando hanno ascoltato questo lavoro, con la band che si lasciò inavvertitamente dietro tutto il divertimento, le jam psichedeliche selvagge ed i testi bizzarri per divenire una formazione di jazz-rock all’avanguardia molto seria, sfornando lunghissime suite strumentali, strutturate ed intransigenti.

Il ruolo di Wyatt è stato ridimensionato a quello di semplice batterista, salvo in “Moon in June”, l’ultimo suo contributo alla storia della band, in cui è stato lasciato libero di esprimersi come meglio credeva. Confesserà poi: “ero molto più interessato di loro all’assurdità come elemento liberatorio“: questo malessere lo portò a creare il suo primo album solista lo stesso anno, The End of an Ear. Robert sarà presente anche in Fourth, ma si capisce da subito che il suo ruolo sarà di puro esecutore di brani altrui.

L’apripista “Facelift“, composta dal bassista High Hopper, è frutto di un intelligente lavoro di collage che unisce parti di registrazioni dal vivo tra la Fairfield Hall di Croydon (4 gennaio 1970) e il Mothers Club di Birmingham (11 gennaio 1970), utilizzando la forma libera delle avanguardie jazz tra suoni funesti; il fuzz assassino di Ratledge strappa la melodia tra folli deflagrazioni sperimentali, in un’atmosfera inquietante scossa da un paradossalmente orecchiabile tema jazzistico che improvvisamente esplode. Ci sono grandi momenti, tra cui l’assolo del flauto di Jimmy Hastings, rimbalzante direttamente dalle canzoni di Caravan, bilanciato dal pesante abbaiare del sax di Elton Dean e del basso funky di Hopper. 
La terrificante “Slightly All The Time” viene avviata in maniera molto più veloce rispetto al suo predecessore ed è un brano più vivace ed interessante, con linee estramemente piacevoli del sassofono e del flauto in tutta la durata della canzone: si inizia con il basso di Hopper, prima dello sviluppo della melodia flautistica, per poi evolversi in un pezzo di jazz modale in lento progresso tra ritmi dolci e stati d’animo feroci. La seconda metà della canzone risulta più tormentata, con Ratledge che aggiunge spruzzi di organo Lowrey ed Elton Dean che brilla con il suo sax contralto; ricordiamo anche la presenza di Nick Evans al trombone e di Jimmy Hastings al clarinetto che qui, proprio come il suo amico Wyatt, non ha molto da fare, ma aggiunge una velata malinconia di sottofondo. Il modo in cui tutta la band interagisce insieme è semplicemente meraviglioso, fondendosi in un prototipo sonoro che annuncia il futuro album della Macchina Morbida, con un tripudio del sassofono ed una grande sezione ritmica.
Apre il secondo lato del disco la dispettosa “Moon In June“, l’unica canzone di Third che presenta la parte vocale ed un guscio più morbido: senza dubbio si tratta di un affascinante pezzo, con la voce acuta di Wyatt che suona a volte come un altro strumento, adagiandosi perfettamente alla melodia ossessival. La seconda parte della canzone visualizza una combinazione imbattibile di potente jazz rock, un punto cruciale di questo album che non fa mancare la presenza di Elton Dean, in quanto Wyatt, si muove tra voce, batteria, pianoforte ed organo, con estrema meastria. Grazie a Hugh Hopper e Mike Ratledge il brano si trasforma in qualcosa di molto più sinistro, dopo un inizio malinconico: il finale è scuro, minimalista e invade inaspettatamente la nostra mente. Il violino di Rab Spall suona come se sia stato messo in lavatrice (a causa degli effetti del nastro), ma taglia l’atmosfera in qualcosa di inquietante, ancora più greve di alcune parti di Rock Bottom. Una curiosità: sul finale Wyatt canticchia alcune parole del brano solista di Kevin Ayers con Syd Barrett “Singing a song in the Morning” (“Singing a song in the morning, singing it again at night. Don’t really know what I’m singing about but it makes me feel all right“) e di “Hat Song”, sempre del vecchio amico (“You say you like my shirt, you say you like my hat. Oh but you never say you like me or something nice like that. What about me?“). 
L’epica conclusiva di “Out-Bloody-Rageous” si accumula lentamente e con molta calma: si tratta di una traccia che inganna l’ascoltatore in un primo momento, confondendosi con la musica concreta con Hopper che sperimenta nuovamente tra loop e bobine, come si può sentire dall’organo rovesciato e dal pianoforte accelerato. Elton Dean sforna un assolo caldo di passione, in un’improvvisazione jazz che erutta dal nulla, mentre gli ultimi dieci minuti della traccia cadono anch’essi nell’oscurità, ma con meno serietà di “Moon in June”.

Third è una pesantissima pietra miliare del movimento di Canterbury (sorprendentemente nella TOP 20 inglese!), che imposterà lo standard per le successive generazioni: una grande esibizione di superba musicalità, che fornisce una miriade di stati d’animo che finiscono per stenderti per la sindrome di Stendhal, ma che coincide anche con l’inizio della fine del gruppo. I Soft Machine avrebbero ulteriormente battuto questa direzione nell’album successivo, Fourth, ma non riuscirono mai ad ottenere lo stesso imponente risultato: meno psichedelico, più jazz e progressive rispetto alle prime due uscite, perso tra i meandri del jazz-rock di Miles Davis e del minimalismo di Terry Riley, Third si è costruito da solo un bel pezzo di storia.

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