The Stone Roses – The Stone Roses

I am the resurrection and I am the light!

No, a dispetto del verso appena riportato non siamo in Chiesa, bensì in Gran Bretagna: è tempo di segnare nel vostro elenco, se non l’avete già annotato, un gruppo sostanziale del panorama indie rock: gli Stone Roses.
Il nome nient’altro è che una fusione tra due band (gli English Rose e i Rolling Stones) ma tra le più influenze ravvisabili di questi mancuniani ci sono i Byrds, i New Order, i Television e, ovviamente, gli Smiths. Da ques’amalgama ne esce fuori un sound originale, a cavallo tra un’empia spavalderia pop ed un burbero ma ballabile, psichedelico shoagaze: è sulle strade di Manchester che il gruppo capitanato da Ian Brown (un personaggio davvero interessante!) si fa notare e trova la fama con l’omonimo album.

Tutto iniziò nel 1980, quando i giovani Ian Brown (basso) e John Squire (chitarra), formarono i The Patrol insieme al cantante Andy Couzens ed al batterista Simon Wolstencroft: ben presto, però, i membri della band persero l’entusiasmo e nel 1981 Brown vendette il suo basso per acquistare uno scooter, mentre Wolstencroft si unì ai Freak Party, la band che avrebbe poi lanciato gli Smiths. Squire e Couzens formarono invece un nuovo gruppo con il bassista Gary “Mani” Mounfield, i The Fireside Chaps, e, dopo l’assunzione di un cantante di nome Kaiser e del batterista Chris Goodwin, cambiarono il loro nome in The Waterfront; quando Goodwin lasciò la band poco prima di registrare il primo demo, Squire chiese al suo vecchio amico Ian Brown di aderire alla sua nuova formazione come cantante, condividendo per un po’ il ruolo con Kaiser.

Dopo diverse prove senza essersi ancora battezzati con un nuovo nome, Squire propose la sigla “The Stone Roses”, optando per un contrasto di due parole che andavano letteralmente l’una contro l’altra. Nel frattempo si era ormai giunti al 1984, anno in cui fu reclutato Alan Wren ed anno del primo concerto ufficiale con l’epitome Stone Roses, esattamente il 23 ottobre 1984, aprendo per Pete Townshend al Moonlight Club di Londra.

Le tracce di questo fulminante debutto discografico (Silvertone, 1989) seguono offuscatamente la vita di Cristo, iniziando con la nascita e l’adorazione fino all’epilogo della resurrezione. L’opener “I wanna be adored” è una fosca melodia-messaggio posta di tergo alla voglia di essere idolatrati, secondo Ian un peccato capitale come la lussuria; stesa da poche righe di testo, la musica è riempita da una mescolanza cromatica di suoni impostati dal bassista Mani (Gary Mounfield) che scorrono lisci fino al canonico cambio di tempo in prossimità della chiusura, marchio di fabbrica della band.
La pungente “She bangs the drums” tratta dell’euforia dell’innamoramento, in un aspetto sonoro non dissimile dai REM. e dai New Order (ricordiamo che Peter Hook è uno dei produttori!), mentre prosegue la sua carica di positività e si lancia sulla stessa fausta scia la seguente “Waterfall, ennesimo singolo rilasciato, che ci trasporta in un paesaggio arcadico in cui Reni (Alan Wren) alle percussioni si veste da mandriano, conducendoci in un’atmosfera a tratti bucolica, che sarà ribaltata dalla malsana “Do Not Stop“, una sua versione manipolata nei nastri, e “(Song for My) Sugar Spun Sister“, con la sua voce raddoppiata ed un basso sconvolgente.
Il momento della crocifissione è esternato nella perturbata “Bye bye badman” che, oltre che la quinta traccia, è anche il titolo dell’opera di copertina dipinta dal poliedrico chitarrista John Squire; ciò di cui si canta/dipinge è la rivolta studentesca francese del 1968 (ed infatti sono stati dipinti come emblemi la bandiera francese ed i limoni, utilizzati come antidoto ai gas lacrimogeni) in analogia all’esperienza di Cristo. “Elizabeth My Dear” si basa, d’altrocanto, sulla ballata tradizionale Scarborough Fair, mentre la successiva “Made of stone“ è una della migliori canzoni del disco, un’opera psichedelica dedicata a Jackson Pollock, il cui “action-painting” è stato d’ispirazione anche nell’opera della copertina. Dopo la schizofrenia ritmica di “Shoot You Down” e la litania pacata e retrò di “This is the One“, l’arroganza zampillante del disco culmina nell’eretismo di “I am the resurrection“, quasi una divinizzazione in vita impregnata di misantropia, dove il binomio Mani-Reni (rispettivamente basso e batteria) si fa intenso e funky, Squire si rende astratto quanto Polllock e stende accordi come a tramutare in musica il dropping del suo idolo pittorico, mentre Brown si proclama – non troppo umilmente – portatore del Verbo ed in un incrocio interminabile di melodie muore il disco… Ma la resurrezione è alle porte: The Stone Roses è un disco alienato, testardo, orgoglioso – eppure assai generoso ed espressivo.

Gli Stone Roses hanno saputo sposare un pop psichedelico intelligente ad astruse ballate ricolme di accattivanti “stop and go”, confezionando il tutto in alcuni brani incredibilmente accessibili e potenti,  tutti da ascoltare ma soprattutto riascoltare, assolutamente!

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