The Velvet Underground – The Velvet Underground & Nico

The Velvet Underground & Nico è probabilmente uno dei dischi più conosciuti di sempre, ma la sua storia non fu lineare: le prove ufficiali per questo capolavoro postmoderno avvennero nel mese di gennaio 1966 ma le sessioni di aprile ne canalizzarono tutte le intuizioni. L’album venne prodotto da Andy Warhol, che disegnò anche la celebre copertina con la banana, sulla quale non comparivano né il nome del gruppo né quello della casa discografica, ma solo la firma dell’artista: le prime copie invitavano chi le guardava a “sbucciare lentamente e vedere” (“peel slowly and see”), togliendo un adesivo dal quale sbucava, in una scontata metafora fallica, una banana color rosa: una macchina speciale fu necessaria per la fabbricazione di queste cover (un dato che fu una delle cause del rilascio ritardato dell’album) ed oggi le copie originali del disco con la caratteristica buccia adesiva sono ormai oggetti rari da collezione (anche se è stata riproposta una nuova edizione analoga) .main-qimg-07005304600bb80f654ee42c52a422ea

Tutto iniziò quando Andy Warhol ed il suo collaboratore Paul Morrissey, smaniosi di fare soldi nel rock, stavano cercando un gruppo da promuovere, quando vennero invitati dal ballerino Gerad Manlanga al Cafè Bizzare per assistere ad un concerto dei Velvet Underground il 15 dicembre del 1965: questo era un locale del Greenwich Village di New York, uno stanzone lungo e stretto con segatura sparsa sul pavimento e, sulle pareti, alcune lampade coperte da reti da pesca. Warhol e la sua comitiva – tra cui la modella Edie Sedgwick ed i registi Paul Morrissey e Barbara Rubin – sedettero ad un paio di tavoli posti accanto al muro davanti al gruppo e, dopo il set, Barbara Robin condusse i Velvet Underground da Andy: Reed e Warhol sedettero uno accanto all’altro e s’intesero immediatamente.

La maggior parte delle canzoni vennero registrate a metà aprile del 1966, durante un periodo di quattro giorni agli Specter Studios, un malconcio studio di registrazione di Manhattan. Questa sessione di registrazione venne finanziata da Warhol e dal produttore della Columbia Norman Dolph, che lavorò anche come tecnico del suono assieme a John Licata; tre delle canzoni, (“I’m Waiting for the Man”, “Venus in Furs” e “Heroin”), vennero ri-registrate invece a Hollywood alla fine del 1966, nel corso di due giorni ai T.T.G. Studios. La Columbia Records si interessò al disco con la speranza di poter vendere il prodotto ad un’altra compagnia: alla fine si fece avanti soltanto una piccola etichetta del jazz, la Verve Records (già al lavoro con il “rivale” Frank Zappa), che era molto interessata al rock più sperimentale, anche grazie alla presenza del produttore Tom Wilson, che si era recentemente trasferito dalla Columbia; nel novembre 1966, quando la data del rilascio venne posticipata, fu proprio Wilson a portare la band ai Mayfair Studios di Manhattan per ultimare il progetto ed aggiungere l’ultima canzone: il singolo “Sunday Morning”. Rimane una certa confusione su chi effettivamente abbia prodotto The Velvet Underground & Nico: ciò che è certo è che Andy Warhol fu un produttore accreditato solo formalmente, ed ebbe poca influenza diretta, al di là di aver pagato per le sessioni di registrazione. Di fatto, molte altre persone che hanno lavorato all’album sono spesso citate: John Cale, ad esempio, ricordó in diverse interviste come sia stato Tom Wilson a produrre quasi tutti i brani (La band non ebbe più un buon produttore come Tom Wilson“, Andy Warhol non ha fatto niente“).  

Ai Velvet Underground – dal nome ispirato all’omonimo libro di Michael Leigh e formati dal chitarrista e cantante Lou Reed, dal polistrumentista John Cale, dal chitarrista e bassista Sterling Morrison e dalla batterista Maureen Tucker – si aggiunse la statuaria modella tedesca Christa Päffgen, alias Nico, invitata da Andy Warhol, il quale riteneva che l’inserimento di questa carismatica figura potesse far guadagnare popolarità al gruppo (che l’accolse non senza malumori). I Velvet Underground con Nico debuttarono nel febbraio del 1966, esibendosi al Cinematheque di New York per poi partire, qualche giorno dopo, con tutti gli altri artisti dello show multimediale di Warhol che univa musica, danza e cinema, denominato Exploding Plastic Inevitable, per una lunga tournée statunitense. Per questo spettacolo Andy tentò anche di coinvolgere Frank Zappa ed i suoi Mothers ma, cinico e coerente come pochi, il compositore di Baltimora declinò la sua offerta.

The Velvet Underground & Nico tocca diversi temi controversi in molte delle sue canzoni, tra cui l’abuso di droga, la prostituzione, il sadismo ed il masochismo. Per una serie di motivi, l’album ebbe una notevole sfortuna al momento della sua prima diffusione: la produzione ad un certo punto venne fermata e tutti i dischi nei negozi vennero ritirati per l’alto costo della stampa, mentre una successiva ristampa ebbe dei problemi legali con il ballerino della Factory di Warhol, Eric Emerson, in quanto una sua fotografia proiettata sul muro dietro la band ritratta sul palco, era stata stampata sul retro dell’album senza che gli venissero pagati i diritti d’immagine. Emerson minacciò di citare in giudizio l’etichetta per l’uso non autorizzato della sua immagine, a meno di non essere risarcito: piuttosto che aderire alle sue richieste, la MGM fermò la distribuzione del disco fino a quando l’immagine di Emerson fu oscurata dalla foto nelle stampe successive; le copie che erano invece già state stampate vennero vendute con un grande adesivo nero che copriva l’immagine del ballerino.

Anche se fu un fallimento commerciale e di critica al momento del rilascio, questo disco da allora è diventato uno dei più influenti e acclamati album rock della storia. Lou Reed scrisse la maggior parte dei testi dell’album, ma non intendeva trattare argomenti scabrosi per puro shock: egli era infatti un sincero fan di poeti ed autori come Hubert Selby Jr., Raymond Chandler, Nelson Algren, Allen Ginsberg e William Burroughs e, anche se il soggetto “oscuro” dell’album è oggi considerato rivoluzionario, alcune delle canzoni sono piuttosto incentrate su temi più tipici della musica popolare, scritte da Reed come osservazioni fisiognomiche e psicologiche dei membri della Factory di Andy Warhol.

Dolorosamente dolce è l’apertura superba di “Sunday Morning“, con la batteria “meccanica” della Tucker che ricorda il suo lavoro precedente come operatore dattilografico per la IBM e dona al brano quella delicata sensazione di paranoia mattutina rimarcata anche dal testo, scritto congiuntamente da Reed e Cale all’alba di una domenica mattina dopo una notte passata a provare in studio. Al suo opposto vi è “I’m Waiting For The Man“, con ancora la voce di Lou Reed a guidare la traccia, in grande sintonia con le chitarre distorte di Morrison ed il piano boogie di Cale, che si lancia in un droning finale, al culmine della ricerca di “The man” – che, secondo il gergo coniato da Jack Kerouac, era l’epiteto dello spacciatore, che si aggira in questo caso dalle parti di Lexingstone Street (“I’m waiting for my man, 26 dollars in my hand, up to Lexington 125“). Di tutt’altro sapore è la sensuale “Femme Fatale“, stesa da Lou Reed dietro richiesta di Andy Warhol, ispirandosi alla figura di Edie Sedgwick, che viene qui decantata dalla voce della “chanteuse” Nico. In “Venus In Furs” le cose prendono ancora una volta una strana piega: lo stridore irritante ma affascinante della viola di John Cale è, per tutta la canzone, un punto culminante, dietro alla scena sadomaso descritta dal testo, che si ispira apertamente al romanzo omonimo di Leopold Sacher-Masoch, in uno dei migliori matrimoni di rock e jazz modale mai registrato. Qui ci imbattiamo anche nella nota “Ostrich Guitar” di Lou Reed (dal titolo di una sua canzone coi The Primitives), che consiste essenzialmente nel sintonizzare le corde della chitarra sulla stessa nota, ma spicca anche la batterista Maureen Tucker, con le sue percussioni primitive che ricordano lo stile ipnotico di Babatunde Olatunji. Una curiosità: il brano era un appuntamento fisso durante gli show dell’Exploding Plastic Inevitable, dove veniva eseguito dal gruppo mentre i ballerini Gerard Malanga e Mary Voronow, entrambi muniti di fruste, interpretavano i vari personaggi del testo.

L’influenza di Bo Diddley è dominante su “Run Run Run” dove vi è il susseguirsi della storia dei personaggi di Reed senza fissa dimora (Teenage Mary, Margarita Passion, Seasick Sarah e Beardless Harry) in una favola distorta ambientata a Union Square, un parco dove si incontrano gli spacciatori di droga a Manhattan. La futuristica “All Tomorrow’s Parties” era, non a caso, il brano preferito da Warhol all’interno del disco: il piano boogie-woogie di Cale guida una funerea riscrittura della favola di Cenerentola cantata dalla voce implacabile di Nico (per enfasi paragonabile solo a Bridget St. John); Lou Reed riassunse il brano come “una descrizione molto appropriata di certa gente che frequentava la Factory in quel periodo” ma in verità aveva scritto la canzone (e anche registrato una versione demo nel 1965) prima di incontrare Andy Warhol. Ancora una volta il geniale John Cale, largamente influenzato dal suo precedente lavoro con La Monte Young e Tony Conrad (nel Theatre of Eternal Music),  dal compositore John Cage e dal movimento Fluxus, ha incoraggiato un uso alternativo della produzione di suoni, che ben si incastravano alle sperimentazioni di Lou Reed con le accordature alternative. Il rituale malsano di “Heroin” non avrebbe bisogno di presentazioni: si tratta della canzone più lunga del disco – oltre sette minuti – che inizia con una chitarra pacata e un semplice battito di tamburi, non promettendo nulla di speciale, finchè il ritmo si trasforma in un cerimoniale più complesso con l’inserimento della voce di Lou Reed, dando il via ad una frenetica rapsodia, con la viola maligna di Cale che monopolizza lo spazio come un Niccolò Paganini sotto acido, spingendo la Tucker in un universo ovattato, come se stesse battendo un manico di scopa sul soffitto da due piani più sotto. La semplicità e la poeticità del testo pare dipingere un quadro dell’esperienza lisergica in un modo non dissimile a scrittori come William Burroughs e Hubert Selby Jr.: siamo lontani anni luce dalla filosofia hippy che celebrava l’uso delle droghe come una via per l’ampliamento delle capacità percettive, qui l’unico obiettivo è l’incoscienza apocalittica ed eterna della morte.

Passa a vuoto la bizzarra “There She Goes Again” col suo testo espressionista ed il riff sincopato plagiato da “Hitch Hike” di Marvin Gaye, mentre in “I’ll Be Your Mirror” la statuaria Nico mette il suo accento su una canzone dedicata al primo amore di Lou, Shelley Albin, e forse anche alla stessa Nico, con la quale Reed all’epoca ebbe una breve e chiacchierata laison. Il lato oscuro e contorto della psichedelia di “The Black Angel’s Death Song” potrebbe essere proprio la canzone dei Velvet Underground più radicale del disco, con ancora la viola dannata di Cale a vivisezionare la melodia senza pietà, mentre la chiusura di European Son” si fa largo tra gli sbuffi, i feedback ed i droning della chitarra, nel mezzo di suoni inquietanti, trascinamenti di sedie e vetri infranti, in una canzone dedicata da Reed alla memoria del poeta e suo mentore Delmore Schwartz, morto quello stesso anno, che ebbe Lou fra i suoi allievi alla Syracuse University.

Il primo album dei Velvet Underground è decisamente innovativo, con immersioni nel pop sognante, nel garage rock, nel proto-punk, nell’R&B e in canzoni d’amore più sobrie; se la presenza di Andy Warhol come produttore era soprattutto una questione di firma degli assegni, la sua notorietà permise di certo ai Velvet Underground di registrare il loro materiale senza compromessi e censure, un fatto che sarebbe stato impossibile nella maggior parte delle altre circostanze coeve (vedasi gli album di Frank Zappa del periodo). L’album non vendette molto come il suo coetaneo Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, uscito poco prima, ma almeno è stato riconosciuto dai posteri come un capolavoro e, dopo quasi mezzo secolo, The Velvet Underground & Nico attrae ancora molti visitatori nel suo museo amorale e lisergico. Anche se la sua intensità può intimidire, questo disco era chiaramente stato composto con uno spirito divertito: si dimentica spesso che Lou Reed ride più volte durante il corso dell’album, e possiamo immaginare anche il sorriso sui volti di John Cale, Sterling Morrison e Maureen Tucker, lontani dai dissapori con l’algida Nico. I Velvet Underground hanno pubblicato in tutto solo quattro album, ma questo polittico (The Velvet Underground & Nico, White Light / White Heat, The Velvet Underground e Loaded) copre quasi ogni aspetto della musica rock, sia musicalmente che tematicamente: dalla sperimentazione alla catarsi, dalla morte del jazz alla prefigurazione del punk, passando per la redenzione fino alla storica celebrazione.

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