The Who – Who’s Next

Correva l’anno 1971. Mentre il mondo dava il suo addio a Duane Allman e Jim Morrison, aveva inizio una di quelle stagioni musicali che l’evidenziatore cerebrale dovrebbe annotare con assoluto vigore. Nei negozi si infiltravano dei colossi come Pawn Hearts dei Van Der Graaf Generator, Aqualung dei Jethro Tull, Sticky Fingers dei Rolling Stones e Tago Mago dei Can. Un’età fastosa, leggendaria e produttiva quanto la mezzaluna fertile. Se la musica fosse stata vino, questi dodici mesi avrebbero fruttato la migliore annata.

E’ in questo contesto che si inserisce non una pietra bensì un macigno miliare (la copertina sembra profetica) della storia del rock, pubblicato dalla Decca: il quinto album da annoverare, capolavoro per eccellenza del 1971, è proprio questo Who’s Next. In copertina i 4 musicisti britannici sono immortalati dopo aver urinato su un monolite situato in una zona britannica divenuta celebre per l’estrazione del carbone, con uno scatto che è un evidente omaggio a Kubrick e al suo ‘2001 Odissea nello Spazio‘.
Si tratta di un album che rasenta la perfezione, costruito sulle tracce che dovevano far parte di un ambizioso progetto di opera rock (“Lifehouse“), talmente pretenzioso che l’idea non andò in porto. E paradossalmente mai fallimento fu più brillante: ecco che tra i concepts album Tommy e Quadrophenia e l’indimenticabile Live at Leeds, si inserisce questo gioiello che rivela l’epoca d’oro degli Who.

La prima traccia è “Baba O’Riley, il cui nome omaggia simultaneamente Meher Baba, maestro spirituale di stampo zoroastriano e Terry Riley, compositore d’avanguardia e improvvisatore minimalista da cui il gruppo ricava gli stimoli per questo nuovo lavoro. Daltrey ripercorre vocalmente la teenage wastland, promuovendo ad emblema un ragazzo che ha dovuto lottare per qualsiasi pasto la vita mettesse nel piatto e che, assieme alla sua ragazza Sally, insegue sulla strada verso il sud la felicità. Questo viaggio si prospetta come un moto perpetuo verso un benessere definitivo, che va al di là di un semplice inno generazionale fino a divenire un motto atemporale, sempiterno. Magico l’intro con una parte a sintetizzatore (largamente usato in tutto il lavoro) che abusa dei nostri padiglioni auricolari così come il finale che fa esplodere in un tripudio di sonorità questa eterea canzone.
Una curiosità: Baba O’Riley non è stata mai lanciata come singolo, nonostante sia una delle canzoni più conosciute ed apprezzate dai fans.

Bargain sancisce invece la prima di una lunga serie di ‘love songs‘, in questo caso in senso allegorico. Viscerale ed incisiva, il soggetto in questione non è l’amore esclusivo di un uomo verso la sua donna: Townshend scrisse questo pezzo in omaggio a Meher Baba, suo maestro spirituale (le prime parole della canzone “I’d gladly lose me to find you” sono proprio una citazione del guru indiano) ed in una strofa si inserisce nella parte canora ad omaggiarlo personalmente. Sicuramente una delle più alte espressioni del gruppo, la canzone sembra intendersi come un abdicazione ai beni materiali: la parola stessa “Bargain“, infatti, può tradursi come un patto che, in questo caso, uno fa con se stesso.. Successivamente troviamo “Love ain’t for keeping“, col suo ribadire la natura corale dell’amore e “My wife” con le sue sonorità alla Tommy (un’inclinazione alla “Pinball Wizard“). Si parla di un marito che in un venerdì notte fugge dalla moglie, pensando che ella voglia ucciderlo: unico brano non scritto da Townshend ma da Entwistle che compie una parabola sulla base di un’ esperienza personale. “The song is over” si rivela come uno dei punti salienti dell’album, facendosi apprezzare per le pregevoli percussioni di Keith Moon: una poesia messa in musica come un madrigale in chiave moderna. Leggendo invece il testo dell’affabile “Getting in tune“, essa sembra potersi intendere come un aperto dialogo ai fans, ma il senso rimane alquanto sfuggente: ne rimangono una canzone sentita, in completo stile “The Who” nella assidua mutevolezza di ritmo ed un ottimo Townshend.

Goin’ mobile” è un’eccellente colonna sonora da automobile e stende su un pentagramma uno dei tanti viaggi senza meta di Townshend. Si tratta di una spensierata parentesi acustica che sarà rotta con la celeberrima “Behind blue eyes“. Leggenda vuole che lo schivo Townshend scrisse questa ballad in camerino in seguito all’incontro con un’accattivante groupie. E’ un brano diretto e tacito nello stesso tempo, alienata quanto basta a parlare della solitudine. Splendido il cambio di ritmo in prossimità della chiusura ed il riff che sarà ripreso nella traccia successiva come a ribadire la discendenza di Who’s Next dall’opera rock. La potentissima “Won’t get fooled again” cala il sipario sul disco. Forse la canzone più moralistica ed impegnata dell’album, racconta di una rivoluzione che paradossalmente porta ad una situazione precedente. I nuovi padroni sono uguali ai vecchi e ogni nuovo credo postulato è destinato alla corruzione… Energica, sarcastica, caustica quanto basta: gli Who sfornano una canzone tutta da sentire ed assaggiare con ogni senso che il corpo possiede: usare solo l’udito è limitativo. Magistrale infine l’uso del sintetizzatore anche in questo brano.

E’ un imperativo categorico conoscere gli Who, è un obbligo e un dovere verso se stessi ascoltare questa meraviglia del rock!

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