Tom Waits – Rain Dogs

How we danced and you whispered to me “you’ll never be going back home!

Eh no, oggi non si torna a casa: questo è uno di quei dischi che non lascia inerti! Sulle sue strade potrete scorrazzare in diversi vincoli emotivi, illuminati da un ormai maturo ed intenso Tom Waits spalleggiato da compagni di peripezie come Marc Ribot a Keith Richards.
Una città intera di strumenti è stata appigionata: dal trombone al banjoo, dalla fisarmonica ai rumori di strada; il risultato è un’avanguardia musicale che ha le proprie radici in un mondo civilmente diseredato ma, nel contempo, nobilitato tramite un blues insieme roco e leggero e un jazz sfregiato da suoni d’esotismo urbano. Tom Waits è un cantastorie eclettico, che indaga dal basso sporcandosi le mani: la sua scrittura è confusa, avanza gagliarda tra rantoli e morali, fino a lambire il teatro: la sua è un’opera beat fuori tempo, e di certo Kerouac e Bukowski lo guarderanno dall’alto con trascendente beneplacito.

Suona fiabesco e lievemente patetico, eppure è l’incontro con la futura moglie Kathleen Brennan a dare una netta svolta alla carriera del rauco cantautore statunitense: ne abbiamo una prova in Rain Dogs (1985, Island), album che funge da collante in una trilogia (la cosiddetta “Trilogia di Frank“) inagurata col capolavoro Swordfishtrombones (1983) e conclusa con Frank’s wild years (1987).

Apre le danze con “Singapore“, ottimo ingresso in scena che profetizza il carattere polimorfo dell’intero lavoro e, pilotati dell’Orco, ci fa salpare direttamente in un mare agitato: è una canzone torva, abrasiva, azzardata al punto giusto da riuscire ad insinuarsi nella testa tramite uno strisciante contrabbasso e alcune percussioni raminghe. Si tratta di cantautorato sporco e barocco, mai nudo, vestito altezzosamente di stracci ad una festa: un’immagine che viene ben rivelata in canzoni come “Cemetery Polka” e “Jockey full of bourbon“, cronometrate impetuosamente da funeste marimba che sembrano emergere dai fumi di un bar.

Tango till they’re sore” è un piccolo gioiello, una danza sgraziata e viscerale che ha il proprio casquè nel verso “I’ll tell you all my secrets but I lie about my past, so send me off to bed forever more“. Altra ballad al limite del carnale è “Time“, sicuramente uno dei componimenti più significativi di questo lavoro, uno sforzo continuo contro il tempo sillabato dolcemente da chitarra e fisarmonica.
La title-track “Rain dogs“, inaugurata da un organo spettrale, nient’altro è che una canzone randagia ma purosangue: a metà strada tra poesia e teatro, è un manifesto rappresentativo di Tom Waits per il suo ritmo gitano impregnato di vita comune. L’Orco dimostra ancora una volta di non esser un semplice cantastorie bensì un protagonista. Degne di nota son inoltre “Blind love“, infervorata da un ebbra steel guitar condotta da Richards dal profumo di whiskey e country, e “Downtown train” un celeberrimo viaggio nei bassifondi a bordo di un treno che rumoreggia un pop-rock totalmente ‘made in usa‘ (discorso analogo per “Hang down your head“, scritta a quattro mani con la moglie). “Anywhere I lay my head” ci saluta con un simposio dionisiaco di tromboni, lasciandoci una storia di bottiglie vuote e di una gremita solitudine.

Ogni traccia ha la sua propria indole e Tom Waits dimostra di averne per tutti e, cosa rara, non si limita a cantare le proprie storie ma vi si lascia trasportare: Rain Dogs è un album di razza, un assoluto capolavoro tra le cui strade risulta assai gradevole smarrirsi come cani randagi.

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