Traffic – John Barleycorn Must Die

John Barleycorn Must Die (Island, 1970) è il quarto album dei Traffic, ma non nacque con questo intento: prodotto dalla Island venne infatti progettato come disco solista di Steve Winwood dal titolo “Mad Shadows”, salvo poi quest’ultimo rendersi conto di avere bisogno dell’aiutino dei vecchi compagni (ma solo dopo aver suonato da solo tutte le parti strumentali di “Stranger to Himself”!)  

Qui i Traffic hanno completamente catturato lo spirito rinato di una generazione che si è votata al rivoluzionario, nel decennio più tumultuoso degli anni Sessanta. Le influenze blues sono evidenti come nei lavori precedenti, anche se sottomesse a favore di un piano jazz edulcolorato e dalle più numerose intrusioni del flauto. In questo capolavoro gli artefici sono essenzialmente tre: il vocalist factotum Steve Winwood alla chitarra e alle tastiere, il percussionista Jim Capalbio e Chris Wood al sax e agli strumenti a fiato.

La strumentale Glad” esplode in faccia gli ascoltatori in forma marcatamente jazz, avanzando progressivamente in accordi incastrati e pause al tempo di sax e pianoforte, mentre Capaldi sincronizza il tutto con una ritmica trainante. Le differenze coi lavori precedenti sono subito palesate e sono sostanziali: le canzoni sono più lunghe e più sviluppate musicalmente. La continuazione naturale è “Freedom Rider” ma la voce di Winwood qui irrompe malinconicamente col piano: si tratta di una melodia orecchiabile evidenziata dal flauto e dal sax a costruire un crocevia di emozioni soul e funky (“Like a hurricane around your heart when earth and sky are torn apart”).

Nelle seguenti due tracce il traffico cambia strada e si sposta dalla corsia del jazz a quella del rock.Empty Pages” presenta la combinazione edificante organo / basso: qui non c’è neanche un sussurro di sax perché la cavalcata tastieristica di Winwood lo renderebbe superfluo. Il nobile organo clericale riporta alla mente i Genesis, così come la voce soul di Steve sembra ricalcare Gabriel… Ma è un manierismo debole che ben si sopporta. “Stranger To Himself“, d’altro canto, in una strana giustapposizione di pennellate blues e country dai toni Southern Rock (Allman Brothers in pole), inizia tramite un celere fingerpicking per poi trasformarsi in un ibrido non ben catalogabile. Il leggendario produttore Chris Blackwell (fondatore della Island Records) ha descritto una volta Steve Winwood come “Ray Charles sotto elio” e qui pare di capirne il perchè… La sua voce ha una timbrica davvero particolare.

L’agreste John Barleycornè una moderna interpretazione di una canzone popolare britannica del XV secolo (già oggetto di diverse poesie e di cover da parte di artisti come Fairport Convention e Steeleye Span, per citarne alcuni) e narra in senso figurato la morte e resurrezione dello Spirito del Grano, qui personificato come un uomo che è stato brutalmente assassinato. Essa appare umilmente come una canzone folk con flauto, chitarra acustica e pianoforte ma è la voce di Steve Windwood che rende questo brano un assoluto masterpiece (una scommessa vinta l’idea di Wood di inserirla nell’album). Il traffico viene poi lasciato alle spalle e raggiungiamo la nostra meta con “Every Mother’s Son“, un pezzo che oscilla tra R&B e gospel e si distingue dagli altri brani anche per un effetto leslie della chitarra: una chiusura dignitosa e orecchiabile, ma non memorabile se non per un gran bel testo (“together we will go and see what waits for us, a backdoor to the universe that opens doors”).

John Barleycorn Must Die è stato il primo disco d’oro della band e ha raggiunto il numero 5 della classifica senza il beneficio di neanche un solo singolo di successo. Un must-have di ogni collezione rock!

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