Van Der Graaf Generator – H to He, Who Am The Only One

Terzo lavoro in studio per la band forse più sottovalutata della scena progressive, nella cui formazione spicca tuttavia il frontman più talentuoso, tale Peter Hammill. A completare la line-up dei Van Der Graaf Generator (che devono il loro nome alla famosa macchina elettrostatica) ci furono Hugh Banton alle tastiere e al basso, Guy Evans alle percussioni e David Jackson con gli strumenti a fiato. L’esclusione della chitarra elettrica nella maggior parte dei brani può sembrare blasfema nella canonicità della musica rock, ma i VdGG furono in grado di creare un loro suono peculiare, con organo e sax stretti in una vorticosa armonia assieme allo sfondo ritmico oscuro di Evans; lo stile vocale di Hammill presenta inoltre una versatilità timbrica inconfondibile e la sua lirica gotica ha una grande carica emotiva negativa (per usare quei paragoni scientifici tanto cari a questa cervellotica formazione). 

L’intensa poesia del precedente album The Least We Can Do is Wave to Each Other in H to He, Who Am The Only One (Charisma, 1970) viene parziamente oscurata, lasciando il suo posto ad un ambiente più melodrammatico, con influenze classiche intrise di jazzù e psichedelia, intrappolate in un labirinto di strutture compositive anormali e atmosfere sepolcrali. Il titolo simboleggia la fusione dei nuclei di idrogeno in elio, nella basica reazione esotermica tra il sole e le stelle, mentre Paul Whitehead collaborò qui alla prima copertina per la band (più celebre sarà quella di Pawn Hearts): quest’immagine si rifà ad un vecchio disegno dell’artista (denominato “Birthday”), una metafora visiva spaziale che simboleggia la sua nascita, mentre il fascio di luce va ad illuminare Londra.

La minacciosa ballata “Killer è un’apertura tetra, in cui Hammill dà voce ad un pesce mostruoso, nato “in a black day, in a black month, at the black bottom of the sea” (in un giorno nero, in un mese nero, nel fondo oscuro del mare) e che uccide tutto ciò che gli si avvicina, rimanendo inevitabilmente da solo; successivamente il cantante si paragona ad esso (“Now I’m really rather like you, for I’ve killed all the love I ever had“) in una sezione che ben definisce lo stato d’animo dell’intero album: la morte, la solitudine ed il bisogno di amore sono temi ricorrenti in tutto questo lavoro. La narrazione in prima persona, la reiterazione dell’elemento oscuro e l’alienazione sembrano riportare al racconto “L’estraneo” di Lovecraft, nonostante l’habitat del mostro fosse un castello. C’è poi una strana jam session psichedelica nel mezzo, soggiogata da un organo ed un sax cavernosi, fusi in una combinazione letale con la sezione ritmica di Nic Potter (che ha lasciato la band a metà della registrazione di questo album, sostituito in seguito da Banton al basso), ma la vera sorpresa di questa canzone è il lieve contributo acustico di Peter Hammill, che con una fuggevole chitarra si amalgama a questa sinistra melodia, che ha tutto il sentore di un attacco cardiaco messo in musica. La viscerale “House With No Door” è un’altra classica ballata gotica del conuo di Hammill, coadiuvata dal pianoforte sepolcrale di Banton e dal flauto di Jackson e che offre un efficace ritratto dell’artista come uomo torturato, imprigionato nella caverna del suo stesso cranio, i cui “muri” razionali lasciano fuori l’amore desiderato ardentemente. La straordinaria potenza della voce di Hammill, tra logos e pathos, è in grado di spezzarti il ​​cuore con poche parole mentre con un incerto falsetto grida “My body’s rejecting the cure, won’t somebody help me?“.

The Emperor In His War-Room” (“The Emperor”, “The Room“) è una suite tascabile in due sezioni, che vede il crimsoniano Robert Fripp ospite alla chitarra principale. Tutta la prima metà è basata su un ritmo regolare ed un flauto conduttore, alternando sapientemente momenti delicati a ritmi marziali con altezze vocali solenni, in un’atmosfera vagamente orientale violentata da un organo che ci fa sprofondare in una maniacale paranoia. A metà della canzone vi è un ponte su cui Robert Fripp svetta con la sola chitarra elettrica presente in tutto l’album, una struttura inedita che porta dritta a “The Room”, dentro una stanza appunto, il cui tema principale è condotto da un piano claustrofobico: questa seconda sezione è molto meno accattivante della prima, e si realizza in un finale morbido e speculare del principio di questo micro-poema bellico. Un’osservazione: “l’imperatore della guerra” è quindi un generale dell’esercito, un uomo vittima delle circostanze e che sa solo uccidere – questi sembra la trasposizione nella vita reale del pesce in “Killer”, fuori dall’acqua psicologica che quella canzone ha plasmato metaforicamente. In “Lost” (“The Dance In Sand And Sea“, “The Dance In The Frost“) Hammill ordisce una canzone bisezionata ed emotiva, che affronta lo spettro di un amore perduto: il tema tradizionale della solitudine post-rottura viene reso attraverso una melodia dominata dal chiasmo del sax eccentrico di David (che pare quasi simulare il respiro umano) e dell’organo frenetico di Banton, ricordando la passione del vecchio rapporto. Evans contribuisce ancora una volta con un lavoro di basso indipendente, dando enfasi laddove necessario; c‘è un tripudio di varietà in questo pezzo lungo, ma l’organo ed il sassofono rimangono saldi in tutta la pista: una progressione reiterata porta la canzone ad una conclusione drammatica, il cui culmine si verifica quando Peter pronuncia le parole ”I Love You” in modo molto significativo.

La conclusiva “Pioneers Over C (C, come in E = MC2) forgia in musica una mini-epica interstellare, con diversi temi fusi insieme che viaggiano alla velocità della luce nell’entropia primordiale, dove l’equipaggio spaziale è destinato a galleggiare in uno stato di morte-vivente per tutta l’eternità (It is so dark around, no life, no hope, no sound. No chance of seeing home again. The universe is on fire, exploding without flame, we are the lost ones – we are the pioneers – we are the lost ones”). Da sottolineare una serie di percussioni leggermente più amplificate e un uso più rilevante di ritmi acustici rispetto al passato, con Jackson che riesce ancora una volta a svettare con esplosioni di sax, mentre l’organo di Banton fornisce alcune aggiunte lunatiche. L’odissea nello spazio termina con la voce ancestrale di Hammill, che recita “I am the one who crossed through space, or stayed where I was, or didn’t exist in the first place“, sigillando l’album con una collante di disagio persistente.

In conclusione, H to He, Who Am The Only One non è così maturo come Pawn Hearts, ma è altrettanto valido musicalmente e liricamente; ogni canzone scorre perfettamente in una miscela di melodie confezionate a dovere, in cui non è raro imbattersi in stravagenti focolai di suoni cacofonici che vanno a sottolineare i sotterfugi filosofici dei testi di Hammil: la poesia sepolcrale di “Mister progressive” – passata per i classici  Edgar Allan Poe, Samuel Coleridge, James Patrick Donleavy e H.P. Lovecraft – viene qui rilegata in un classico senza tempo e che fornisce il meglio di sè ad ogni nuovo ascolto. 

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