Van Der Graaf Generator – The Least We Can Do Is Wave to Each Other

The Least We Can Do Is Wave to Each Other è il primo proiettile sparato alla storia dai Van Der Graaf Generator, ma gli inizi del gruppo non furono assolutamente dei più facili: tutto cominciò nel lontano 1967, quando il chitarrista e cantante Peter Hammill, il bassista Keith Ellis, il pianista Hugh Banton ed il batterista Guy Evans si legarono assieme sotto un epitome che omaggiava il fisico americano Robert Van Der Graaff (inventore di una famosa macchina elettrostatica), fino ad ottenere un contratto per l’americana Mercury. Il primo rarissimo 45 giri “People You Were Going To / Firebrand” uscì nel gennaio del 1969 per Polydor, ma venne subito ritirato dal mercato per le proteste della Mercury, la quale accettò di rescindere il contratto in cambio di un album appositamente rilasciato per il mercato statunitense: così il disco solista al quale Hammill stava lavorando (The Aerosol Grey Machinevenne pubblicato a nome dell’intero gruppo e soltanto negli USA, dove i Van Der Graaf Generator erano pressochè sconosciuti.

Quando Tony Stratton-Smith formò la sua etichetta indipendente (la Charisma) la band trovò uno sbocco discografico più promettente e si rimise al lavoro, dopo aver meditato per un periodo la separazione; inoltre, al posto di Keith Ellis arrivarono il bassista Nic Potter ed il sassofonista David Jackson, la cui carismatica figura (sempre con il basco e due sax a tracolla!) dominava la scena: con questa formazione a cinque ha inizio la vera storia dei Van Der Graaf Generator, la cui direzione artistica venne suggellata da Peter Hammill, con la sua vena nera – un po’ necrofila! – ed una suggestione che va indietro nel tempo in scrittori come Edgar Allan Poe, Samuel Coleridge, James Patrick Donleavy e H.P. Lovecraft, oltre che alla Scuola Cimiteriale e alla fantascienza di Isaac Asimov. Con The Least We Can Do Is Wave to Each Other (1970) ci immergiamo quindi nel mondo funesto della band di Peter Hammill,least senza alcuna speranza di riemergere in superficie, in quello che è il primo atto di un trittico che proseguirà con H to He – Who Am The Only One e culminerà indubbiamente con il rilascio dello splendido Pawn Hearts: stampato con la riproduzione del famoso generatore in copertina, il secondo LP della band venne registrato in quattro giorni intensi e denominato con un titolo esteso – “We’re all awash in a sea of blood, and the least we can do is wave to each other” – preso un verso di John Minton, ed è caratterizzato musicalmente dagli attacchi aggressivi del sassofono di David Jackson, dall’organo atmosferico di Hugh Banton, dalla sezione ritmica muscolosa di Guy Evans e Nic Potter e dalla voce espressionista di Peter Hammil.

La prima facciata offre già il primo capolavoro: apre la macabra danza “Darkness 11/11(nda: 11 novembre è la data di nascita di Hammill) che mostra al pubblico tutto il potenziale della band già dalle sue prime note, con un sottile melange di suoni scuri scossi dal vento e destinati ad esplodere in coro con la furia vocale di Hammil (“Don’t blame me please, for the fate that falls, I did not choose it!“), che si dipana nel mezzo di una controversia strumentale tra l’eccentrico sax di Jackson, il basso egemone di Potter e le tastiere estraniati di Banton. La romantica “Refugees” è, d’altrocanto, la classica ballata gotica dei Van Der Graaf Generator, che si basa pesantemente sull’incrocio delle tastiere e del violoncello dell’ospite Mike Hurwitz, in quello che nacque come un inno ai fuggitivi e alle amicizie passeggere (i versi finali “West is Mike and Susie, west is where I love, west is refugees’ home” fanno proprio riferimento all’attrice Susan Penhaligon e al musicista Michael Brand, conquilini di Hammill), dove è presente il primo esempio notevole dei contrasti che scuotono la mente del leader del gruppo, che tra le sue dicotomie psicologiche trova anche spazio per omaggiare i King Crimson con una fugace citazione di “21st Century Schizoid Man”.
L’epica nera di “White Hammer” prende ispirazione da Il Martello delle Streghe (Malleus Meleficarum), storico testo latino dell’Inquisizione Spagnola, le cui atrocità sono ben rappresentate dalle urla feroci dei fiati elettrificati di Jackson e dalla cornetta dell’ospite Gerry Salisbury; la canzone non inizia però così buia come si potrebbe invece dedurre dal suo concetto ispiratore, e prosegue anzi abbastanza pacata in alcune sezioni, salvo poi nel finale svelare definitivamente il suo inganno, sfociando nella mano pesante dell’organo Hammond e nella violenza del sassofono, che iniziano a prendere slancio nella messa nera degli ultimi minuti, fino a venir improvvisamente messi a tacere. Omaggia invece lo scienziato americano Van Der Graaf la successiva “Whatever Would Robert Have Said?“, altro pezzo dalla ritmicità schizofrenica, scosso anch’esso da alcuni cataclismi strumentali, tra riff frastagliati ed un testo simbolico che fa riferimento alla nota macchina elettrostatica (Flame sucks between the balls of steel, nothing moves, the air itself congeals“). Ritorniamo momentaneamente in acque calme con la titubante “Out Of My Book“, la seconda ballata dell’album, semplice ma molto efficace, soprattutto nella delicata interazione tra la chitarra acustica ed un meditativo flauto, ai quali la sezione ritmica aggiunge qualche tocco senza troppo dispotismo, cullandoci amabilmente nell’ignara quiete prima della tempesta della mini-suite finale After The Flood“, che ci barrica quasi l’uscita, in oltre undici minuti di alluvioni strumentali: si tratta di una canzone che contiene diversi elementi che presagiscono il successivo album della band, H to He – Who Am The Only One, marchiata da un pesante uso dell’organo e da un vulcanico Jackson al sax che spinge repentinamente tutti gli strumenti verso l’inferno più profondo, mentre Hammill foscamente presagisce: “this is the ending of the beginnin, this is the beginning of the end“.

The Least We Can Do Is Wave to Each Other sviluppa appieno lo stile che permeerà i capolavori successivi dei Van der Graaf Generator, contraddistinti da un sound unico nel progressive, basato principalmente sul lento intercedere del sax, del flauto e delle tastiere, che focalizzano l’attenzione sulle intense parti vocali drammatiche del poeta nero Peter Hamill: nonostante sia quasi difficile individuare le chitarre elettriche in questo disco, esso rimane comunque un ottimo album rock, costruito su un eclettismo stilistico che conta davvero pochissimi eguali nella storia.

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